Home    Forum    Cerca    FAQ    Iscriviti    Login


La Storia del Forum

Cap: 1 - 2 - 3 - 4 - 5 - 6 - 7 - 8 - 9 - 10 - 11 - 12 - 13 - 14 - 15 - 16 - 17 - 18




Nuova Discussione  Rispondi alla Discussione 
Pagina 1 di 1
 
 
Le favole
Autore Messaggio
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio Le favole 
 
[color=darkred:c28fce15ab][size=18:c28fce15ab]L’Usignolo e la Rosa[/size:c28fce15ab][/color:c28fce15ab]

- Ha detto che ballerà con me se le porterò delle rose rosse – si lamentava il giovane Studente – ma in tutto il mio giardino non c’è una sola rosa rossa.
Dal suo nido nella quercia lo ascoltò l’Usignolo, e guardò attraverso le foglie, e si meravigliò:
- Non ho una rosa rossa in tutto il mio giardino! – si lamentava lo Studente, e i suoi begli occhi erano pieni di lacrime.
- Ah, da qual sciocchezze dipende la felicità! Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ciononostante la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita!
- Ecco finalmente un vero innamorato – disse l’Usignolo. – Notte dopo notte ho cantato di lui, nonostante non lo conoscessi: notte dopo notte ho favoleggiato la sua storia alle stelle, e ora lo vedo. I suoi capelli sono scuri come i boccoli del giacinto, e le sue labbra sono rosse come la rosa del suo desiderio; la sofferenza ha reso il suo volto simile a pallido avorio e il dolore gli ha impresso il suo sigillo sulla fronte.
- Il Principe da un ballo domani sera – sibilava il giovane Studente – e la mia amata vi andrà. Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba. Se le porterò una rosa rossa la terrò fra le mie braccia ed ella piegherà il capo sulla mia spalla, e la mia mano stringerà la sua. Ma non c’è una rosa rossa in tutto il mio giardino, e così io siederò solo, ed ella passerà dinnanzi a me senza fermarsi. Non avrà nessuna cura di me. E il mio cuore si farà a pezzi.
- Ecco certamente un vero innamorato – disse l‘Usignolo. – Ciò che io canto, egli lo patisce, ciò che per me è gioia, per lui è pena. Davvero l’Amore è una cosa straordinaria. È più prezioso degli smeraldi e degli splendidi opali. Perle e granati non possono comperarlo, e non è in vendita sulla piazza del mercato. Non possono comprarlo i mercanti, né pesarlo le bilance dell’oro.
- I musicanti siederanno nella galleria – proferiva il giovane Studente – e suoneranno i loro strumenti, e la mia amata ballerà al suono dell’arpa e del violino. Ballerà così leggera che i suoi piedi non toccheranno intorno. Ma con me non danzerà, perché io non ho una rosa rossa da offrirle e si gettò sull’erba, si chiuse il volto tra le mani, e versò lacrime.
- Perché piange? – chiese la Farfalla, che piroettava qua e là inseguendo un raggio di sole.
- Già, perché? – sussurrò una Pratolina al suo vicino, con voce sommessa e tenera.
- Piange per una rosa rossa – disse l’Usignolo.
- Per una rosa rossa! – esclamarono quelli. – Che ridicolaggine! – e il Ramarro, che era un po’ sprezzante, rise di gusto.
Ma l’Usignolo comprendeva il segreto dolore dello Studente, e restava taciturno sulla quercia, a pensare sul mistero dell’Amore. D’improvviso distese le sue brune ali e volò, si librò nell’aria. Passò attraverso il boschetto come un’ombra, e come un’ombra svolazzò sul giardino. Al centro dell’aiuola erbosa s’ergeva un bellissimo Rosaio, e non appena l’Usignolo lo vide volò sopra di lui e si posò su un ramo.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce.
Ma il Rosaio scosse il capo.
- Le mie rose sono bianche – ribatté – bianche come vuole la schiuma del mare, e più bianche della neve sulla montagna. Ma va da mio fratello che cresce accanto all’antica meridiana, e forse ti darà quel che desideri.
Allora l’Usignolo volò sul Rosario che germogliava accanto all’antica meridiana.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce.
Ma il Rosario scosse il capo.
- Le mie rose sono gialle – affermò - gialle come i capelli della sirena che siede sopra un trono d’ambra, e più gialle del narciso che sboccia nel prato prima che il mietitore giunga con la sua falce. Ma va da mio fratello che germoglia sotto la finestra delle Studente, e forse ti darà quel che desideri.
Allora l’Usignolo volò sul Rosaio che cresceva sotto la finestra dello Studente.
- Dammi una rosa rossa – supplicò – e ti canterò la mia canzone più dolce.
Ma il Rosaio scosse il capo.
- Le mie rose sono rosse – rispose – rosse come i piedi della colomba, e più rosse dei grandi ventagli di corallo che oscillano nelle grotte degli oceani. Ma l’inverno ha ghiacciato le mie vene e il gelo ha dilaniato i miei boccioli, e l’uragano ha spezzato i miei rami, e non avrò più rose quest’anno.
- Una sola rosa rossa è tutto ciò che ti chiedo! – urlò l’Usignolo. – Non c’è proprio nessun sistema per averla?
- Un modo c’è – rispose il Rosario – ma è terribile che non ho il coraggio dirtelo.
- Dimmelo – implorò l’Usignolo – io non ho paura.
- Se vuoi una rosa rossa – disse il Rosaio – sei costretto formarla con la musica al lume della luna, e colorarla col sangue del tuo cuore. Devi cantare per me col petto contro una spina. Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trafiggere il tuo cuore, e il tuo sangue vivo deve scendere nelle mie vene e diventare mio.
- La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa – si dolse l’Usignolo – e la vita è così cara a tutti. È dolce tardare nel bosco verde, e ammirare il Sole nel cocchio d’oro, e la luna nel suo cocchio d’argento. Dolce è il profumo della vitalba, e dolci le campanule azzurre che si celano nella valle, e l’erica che fiorisce sul colle. Ma l’Amore è più prezioso della Vita, e cos’è mai il cuore di un uccellino equiparato al cuore di un uomo?
Così piegò le ali brune nel volo, e si librò nell’aria. Passò attraverso il giardino come un’ombra, e come un’ombra volò sopra il boschetto. Lo Studente era ancora steso nell’erba, là dove lo aveva lasciato, e il pianto non s’era ancora rasciugato dai suoi occhi.
- Sii felice – gli urlò l’Usignolo. – Sii felice! Avrai la tua rosa rossa! Io la formerò con la musica al lume della luna, e la colorerò col sangue del mio cuore. Tutto ciò che ti chiedo in cambio è d’essere un vero innamorato, perché l’Amore è il più giudizioso della Filosofia, per quando saggia essa sia, e il più autorevole del Potere, per quando potente esso sia. Sono color di fiamma le sue ali, color di fiamma è il suo corpo. Le sue labbra sono dolci come il miele, e simile all’incenso è il suo alito.
Lo Studente alzò lo sguardo dall’erba e si pose ad ascoltare, ma non gli era possibile capire ciò che l’Usignolo gli diceva, dopo che capiva solo parole che sono scritte sui libri. Ma la quercia capi, e si addolorò, poiché voleva bene al piccolo Usignolo che si era costruito il nido fra i suoi rami.
- Cantami un’ultima canzone – gli bisbigliò. – Mi sentirò molto sola quando te ne sarai andata.
Così l’Usignolo cantò per la Quercia, e la voce era come l’acqua che si sparge gorgogliante da un’anfora d’argento. Finita che fu la canzone, lo Studente s’alzò, e trasse di tasca un taccuino e una matita.
- Questa creatura ha stile. Disse a se stesso – è un fatto che non si può contestare, ma avrà inoltre sentimenti? Ho timore di no. In verità, è come la maggior parte degli artisti, tutta forma, nessuna lealtà. Non si offrirebbe in sacrificio per gli altri. Pensa solamente alla musica, e tutti sanno che l’arte è egoista. Bisogna in ogni modo ammettere che ha note incantevoli nella sua voce. Peccato che non significano nulla, e non abbiamo alcun’utilità pratica. E andò in camera, e si stese sul suo piccolo letto, e cominciò nuovamente a pensare alla sua amata, e dopo un po’ di tempo, s’addormentò. E quando la Luna spiccò nei cieli l’Usignolo volò dal Rosaio, e pose il suo petto contro la spina. Tutta la notte cantò col petto contro la spina, e la fredda Luna di cristallo si chinò ad udirlo. Tutta la notte cantò, e la spina si spingeva sempre più profonda nel suo petto, e il suo sangue vitale fluiva da lui. Prima cantò dell’amore che germoglia nel cuore di un fanciullo e di una fanciulla. E sul ramo più alto del Rosaio fiorì una rosa magnifica, petalo dopo petalo come nota dopo nota. Pallida era in un primo momento, come la nebbia sospesa sul fiume, pallida come le orme del mattino, e argentea come le ali dell’alba. Come l’ombra di una rosa in uno specchio rosa che fioriva sul ramo più alto del Rosaio. Ma il Rosaio urlava all’Usignolo di premere più forte sulla spina.
- Premi più forte, piccolo Usignolo – urlava il Rosario – o il Giorno spunterà prima che la rosa sia completata.
Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e più forte si fece il suo canto, esseri che cantava il venire al mondo della passione nell’anima di un uomo e di una donna. Una tenue striatura rosea si sparse nei petali del fiore, simile al rossore che si spande sul volto dello sposo quando bacia le labbra della sposa. Ma la spina non era giunta al cuore dell’uccellino, e il cuore della rosa restava bianco, perché solo il sangue del cuore di un Usignolo può invermigliare il cuore di una rosa. E il Rosario urlava all’Usignolo di premere più forte sulla spina.
- Premi più forte, piccolo Usignolo, o il giorno spunterà prima che la rosa sia completata.
Così l’Usignolo premette più forte sulla spina, e la spina gli toccò il cuore, e un violento spasimo di dolore lo trafisse. Più e più penoso era il dolore, e più e più selvaggio si faceva il canto, poiché ora cantava dell’Amore che è reso perfetto dalla Morte, e dell’Amore che non muore nella tomba. E la stupenda rosa diventò vermiglia, come la rosa del cielo d’Oriente. Vermiglia la fascia dei petali intorno alla corolla, e vermiglio come il rubino era il suo cuore. Ma la voce dell’Usignolo si fece più debole, e le sue piccole ali iniziarono a sbattere, e un velo discese suoi occhi. Più e più debole si fece il suo canto, e qualche cosa lo soffocava in gola come un pianto convulso. Allora proruppe in un ultimo slancio di musica. La bianca Luna lo ascoltò, e dimenticò l’alba, ed esitò nel cielo. La rosa rossa lo udì, e fremé tutta d’estasi, e aprì i suoi petali alla fredda aria del mattino. L’eco e il ripetè nel suo antro color porpora sui colli, e risvegliò dai loro sogni i pastori dormienti. Ondeggiò fra i giunchi del fiume, ed essi portarono il suo messaggio al mare.
- Guarda! Guarda! – gridò il Rosario – la rosa è perfetta, ora!
Ma l’Usignolo non rispose, perché stava steso morto nell’erba alta, con la spina nel cuore. A mezzogiorno lo Studente aprì la finestra e guardo fuori.
- Che sbalorditivo colpo di fortuna! – disse con enfasi. – Una rosa rossa! Non ho mai visto una rosa come questa in tutta la mia vita. È così bella che senza dubbio avrà un lungo nome latino – si sporse, e la colse.
Poi si mise il cappello, e corse a casa del Professore con la rosa in mano. La figlia del Professore sedeva in veranda, aggomitolando della seta azzurra su un arcolaio, e il suo cagnolino le stava disteso ai piedi.
- Avevate promesso di ballare con me se vi avessi portato una rosa rossa – urlò lo Studente – ecco la rosa più rossa di tutto il mondo. La porterete stasera sul cuore e mentre danzeremo insieme vi dichiarerà quando vi amo.
Ma la ragazza corrugò la fronte.
- Temo che non sia adattata al mio vestito – rispose – e poi, il nipote del Ciambellano mi ha mandato in dono dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli valgono più dei fiori.
- In fede mia, siete davvero un’ingrata! – disse lo Studente in un impeto d’ira; e gettò la rosa giù nella strada, ed essa cadde in un rivoletto, e la ruota di un carro vi passò sopra.
- Ingrata io? – ripetè la ragazza. – Ebbene, voi sapete che cosa siete? Un grande screanzato, in fondo, né più né meno che un semplice Studente. E non credo neppure che abbiate delle fibbie d’argento sulle scarpe come il nipote del Ciambellano.
E s’alzò dalla sedia ed entrò in casa.
- Che balordaggine è l’Amore! – disse lo Studente andandosene. – Non è utile neppure la metà della Logica, perché non esprime nulla, promette sempre cose che non si concretizzano e fa credere in cose che non sono vere. In effetti, non è per niente pratico, e siccome nel tempo in cui viviamo la praticità è tutto, tornerò alla Filosofia e studierò la Metafisica.
Così si chiuse dentro nella sua stanza, prese lo dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.

Oscar Wilde
 



 
Volodja Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio  
 
[color=darkred:b9be8cb224][size=18:b9be8cb224]Il contadino, l’orso e la volpe[/size:b9be8cb224][/color:b9be8cb224]

Un contadino arava un campo, venne da lui un orso e gli disse:
- Contadino, ti farò a pezzi!
- No, non farmi del male; vedi, sto seminando le rape, per me terrò solo le radici, a te invece darò le cime.
- E sia – rispose l’orso – ma se m’ingannerai, allora sarà meglio che tu non venga più nel mio bosco a fare legna!
Dopo aver affermato ciò, se ne tornò nella foresta.
Arrivò il momento della raccolta ed il contadino raccolse le rape, l’orso uscì dalla foresta.
- Ebbene, contadino, è ora di fare la spartizione!
- Bene, orsetto! Ti consegnerò le cime – e gli portò un carro pieno di cime.
L’orso rimase contento di questa onesta divisione. Allora il contadino caricò le sue rape e si recò in città per venderle, ma gli venne incontro l’orso:
- Contadino, dove vai?
- Ecco orsetto, vado in città a vendere le radici.
- Fammi un pò provare che tipo di radici sono!
Il contadino gli offrì una rapa. Appena l’orso l’ebbe mangiata esclamò:
- Ah-ah! – e si mise a brontolare – mi hai imbrogliato, contadino! Le tue radici sono belle dolci. Non ti arrischiare a venire da me a fare legna, altrimenti ti sbranerò!
Il contadino tornò dalla città ma ebbe paura a tornare nel bosco, bruciò palchetti, panchette e botticelle, ma infine, quando non ci fu più nulla da bruciare, dovette recarsi nel bosco. Entrò quatto quatto, e improvvisamente sbucò fuori una volpe che chiese al contadino:
- Perché contadino ti aggiri furtivamente?
- Ho paura dell’orso, che è infuriato con me e ha giurato che mi sbranerà.
- Non aver paura dell’orso, taglia la legna, io mi metterò a gridare come fanno i cacciatori ai cani: “ su, cercate, addosso “. Se l’orso ti chiede cosa succede, tu spiegagli che i cacciatori danno la caccia ai lupi e agli orsi.
Il contadino si mise a far legna, ma ecco che arrivò l’orso di corsa e gridò al contadino:
- Ehi, vecchio! Cos’è questo grido?
Il contadino rispose:
- Danno la caccia ai lupi e agli orsi!
- Oh, caro contadino, nascondimi nella tua slitta, coprimi con la legna e legami con una corda, di modo che pensino che io sia un tronco.
Il contadino lo mise nella slitta, lo legò con una corda, e con il manico della scure lo picchiò sulla testa fino a quando l’orso non fu definitivamente morto.
La volpe arrivò di corsa e chiese al contadino:
- Dov’è l’orso?
- Eccolo, è morto!
- Allora, mio caro contadino, devi farmi un regalo!
- Ma certo, cara amica volpe! Vieni con me, ti darò il regalo che ti meriti!
Il contadino salì sulla slitta, e la volpe correva davanti a lui; quando furono nei pressi di casa sua, il contadino, fischiò ai cani, e li aizzò contro la volpe. La volpe scappò nel bosco, si nascose in una buca e chiese:
- Voi, occhi miei belli, cosa avete guardato mentre io correvo?
- Oh, cara volpe, abbiamo badato che tu non inciampassi.
- E voi, belle orecchie, cosa avete fatto?
- Noi, invece, stavamo sentendo se i cani che t’inseguivano erano lontani!
- E tu coda?
La coda rispose:
- Ho sempre ciondolato tra le zampe, perché tu inciampassi, cadessi e in bocca ai cani finissi!
- Ah! Ah! Canaglia! Allora, che i cani mangino te.
Tirò fuori della buca la coda, poi la volpe si mise a gridare:
- Cani, mangiate la coda della volpe!
I cani tirarono la coda, e sbarnarono la volpe.

Aleksandr Nikolaevic Afanas'ev
 



 
Volodja Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio  
 
Вовик! Ты впал в детство
Вронский
 



 
Vronskij Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio  
 
[quote:3daeda6b21="Vronskij"]Вовик! Ты впал в детство
Вронский[/quote:3daeda6b21]
Si ti sto riportando indietro alla tua infanzia, il bello caro conte e che non è finita qui.
 



 
Volodja Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio  
 
[color=darkred:ee0b794fc7] [size=18:ee0b794fc7]Il tavolino magico, l'asino d'oro e il randello castigamatti[/size:ee0b794fc7][/color:ee0b794fc7]

C'era una volta un sarto, che aveva tre figli e una sola capra. Ma siccome la capra li nutriva tutti col suo latte, dovevano darle erba buona e condurla al pascolo ogni giorno. I figli lo facevano a turno. Una volta il maggiore la portò al camposanto, dove c'era l'erba più bella, e la lasciò pascolare e scorazzare. La sera, venuta l'ora del ri torno, domandò:
- Capra, hai mangiato a tua voglia? -
La capra rispose: - Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
- Allora vieni a casa, - disse il ragazzo; la prese per la fune, la condusse nella stalla e la legò.
- Be', - disse il vecchio sarto, - la capra ha avuto la sua pastura?
- Oh, - rispose il figlio, - ha mangiato a sua voglia, e non ci sta più foglia -.
Ma il padre volle persuadersene lui stesso, andò nella stalla, accarezzò la cara bestiola e domandò: - Capra, hai mangiato a tua voglia? -
La capra rispose: - Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
-Che cosa mi tocca sentire! -esclamò il sarto; corse di sopra e disse al ragazzo: - Ehi, bugiardo! dici che la capra ha mangiato a voglia, e le hai fatto patir la fame? - E, incollerito, staccò il metro dalla parete e lo cacciò fuori a botte.
Il giorno dopo, toccò al secondo figlio, che scelse un posto accanto alla siepe, dove c'era solo erba buona; e la capra se la mangiò. La sera, prima di tornare a casa, egli domandò:
- Capra, hai a tua voglia? -
La capra rispose: - Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
Allora vieni, - disse il ragazzo; la portò a casa e la legò nella stalla.
Be',- disse il vecchio sarto, - la capra ha avuto la sua pastura?
- Oh, - rispose il figlio, - ha mangiato a sua voglia e non ci sta più foglia-.
Il sarto non si fidò, scese nella stalla e domandò: - Capra, hai mangiato a tua voglia? -
La capra rispose: - Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
- Scellerato, furfante! - gridò il sarto: - far patir la fame a una bestia tanto buona! - Corse di sopra, e cacciò fuori il figlio a colpi di metro.
Ora toccò al terzo figlio; questi volle farsi onore, cercò i cespugli più frondosi e fece pascolare la capra. La sera, prima di andare a casa, le domandò:
- Capra, hai mangiato a tua voglia? -
La capra rispose:- Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
- Allora vieni a casa, - disse il ragazzo; la condusse nella stalla e la legò.
- Be', - disse il vecchio sarto, - la capra ha avuto tutta la sua pastura?
- Oh, - rispose il figlio, - ha mangiato a sua voglia e non ci sta più foglia -.
Il sarto non si fidava, andò nella stalla e domandò: - Capra, hai mangiato a tua voglia? -
La bestia malvagia rispose: - Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
- Oh, razza di bugiardi! - esclamò il sarto: - tutti a un modo, scellerati e sleali! Non mi gabberete più-. E fuor di sé dalla collera, corse di sopra e diede il metro sulla schiena al povero ragazzo, con tanta forza, ch'egli schizzò di casa.
Ora il vecchio sarto era solo con la sua capra. La mattina dopo, scese nella stalla, l'accarezzò e disse:
- Vieni, cara bestiola, ti porterò io stesso al pascolo -. La prese per la fune e la condusse lungo siepi verdi, nel millefoglio e altre erbe che piacciono alle capre.
- Una volta tanto puoi mangiare a sazietà, - le disse, e la lasciò pascolare fino a sera. Allora domandò:
- Capra, hai mangiato a tua voglia? -
Essa rispose: - Ho mangiato a mia voglia, e non ci sta più una foglia: mèee! mèee!
- Allora vieni a casa, - disse il sarto; la condusse nella stalla e la legò. Andandosene, si voltò ancora a dirle: - Stavolta hai proprio mangiato a tua voglia! -
Ma la capra non lo trattò meglio e gridò: - Come potevo mangiare a mia voglia? Ho pestato dei morti la fossa, non ho trovato nemmeno una foglia: mèee! mèee!
All'udirla, il sarto rimase attonito e capì di aver scacciato i suoi figli senza motivo. - Aspetta, - esclamò, - ingrata creatura! Scacciarti è troppo poco: ti concerò in modo che non potrai più farti vedere fra sarti per bene -.
Corse su in un lampo, prese un rasoio, insaponò la testa della capra e la rase come il palmo della mano. E siccome il metro sarebbe stato troppo onorevole, prese la frusta, e le diede tali botte, che essa scappò via a gran balzi.
Il sarto, solo solo nella sua casa, cadde in profonda malinconia e avrebbe voluto riavere i suoi figli, ma nessuno ne sapeva nulla.

Il maggiore era andato a imparare il mestiere da un falegname. Lo imparò con gran zelo e quando, finito il tirocinio, dovette partire, il maestro gli regalò un tavolino di legno comune, niente di speciale a vederlo; ma aveva una gran virtù: quando lo si metteva in terra e si diceva: - Tavolino, apparecchiati! - ecco il bravo tavolino coprirsi di una linda tovaglietta, con un piatto e una posata, e vassoi di lesso e d'arrosto quanti ce ne potevan stare, e un bicchierone di vin rosso che scintillava da rallegrare il cuore. Il giovane apprendista pensò: « Ne hai per tutta la vita ». Se ne andò allegramente per il mondo e non gli importava che una locanda fosse buona o cattiva, e ci si potesse o no trovar qualcosa. Quando gliene saltava il ticchio, non si fermava neanche a un'osteria, ma in un campo, nel bosco, in un prato, come gli piaceva, si toglieva il tavolino dalle spalle, se lo metteva davanti e diceva:
- Tavolino, apparecchiati! - ed ecco pronto tutto quel che desiderava.
Alla fine pensò di tornar da suo padre: la collera si era certo placata e, con il tavolino magico, l'avrebbe accolto volentieri. Ora avvenne che la sera, sulla via del ritorno, giunse in una locanda piena di gente: gli diedero il benvenuto e l'invitarono a sedersi e a mangiare con loro; se no, difficilmente avrebbe ancora trovato qualcosa.
- No, - rispose il falegname, - non voglio togliervi quei due bocconi; piuttosto sarete voi miei ospiti -. Si misero a ridere, pensando che si burlasse di loro. Ma egli mise in mezzo alla stanza il suo tavo lino di legno e disse:
- Tavolino, apparecchiati! - Ed eccolo guarnito di cibi squisiti, quali l'oste non avrebbe mai potuto fornire, e il cui profumo solleticava piacevolmente il naso degli avventori.
- Coraggio, cari amici! - disse il falegname; e quelli, vedendo che faceva sul serio, non se lo fecero dire due volte, si avvicinarono, estrassero i loro coltelli e non fecero complimenti. E meraviglioso era che ogni piatto, non appena vuoto, veniva subito sostituito da uno colmo. L'oste stava a guardare in un angolo, non sapendo che dire; ma pensava: « Un simile cuoco ti ci vorrebbe proprio per la tua locanda! » Il falegname e la sua brigata se la spassarono fino a tarda notte; alla fine andarono a letto e anche il giovane apprendista si coricò, appoggiando il suo tavolino magico alla parete. Ma l'oste continuava ad almanaccare; gli venne in mente che nel ripostiglio c'era un vecchio tavolino, identico all'aspetto; l'andò a prendere pian piano e lo scambiò con quello magico. La mattina dopo il falegname pagò il conto, si caricò del tavolino, senza sospettare che fosse falso, e se ne andò per la sua strada. A mezzogiorno giunse dal padre, che l'accolse con gran gioia.
- Be', caro figlio, cos'hai imparato? - gli chiese. - Babbo, son diventato falegname.
- Un bel mestiere, - replicò il vecchio, - ma cos hai portato dal viaggio?
- Babbo, il meglio che abbia portato è il tavolino -.
Il sarto l'osservò da ogni parte e disse: - Non hai fatto un capolavoro: è un tavolino vecchio e brutto.
- Ma è un tavolino magico, - rispose il figlio: - quando lo metto in terra e gli dico: « Apparecchiati! » subito vi compaiono le più squisite vivande e un vino che rallegra il cuore. Invitate tutti i parenti e gli amici, che una volta tanto si ristoreranno: il tavolino li sazia tutti -.
Quando la compagnia fu raccolta, mise il suo tavolino in mezzo alla stanza e disse:
- 'Tavolino, apparecchiati! - Ma quello non si mosse e rimase vuoto, come qualsiasi altro tavolo che non capisce la lingua. Allora il povero apprendista s'accorse che il tavolino gli era stato scambiato e si vergognava di far la figura del bugiardo. Ma i parenti lo presero in giro, e tornarono a casa, senza aver mangiato né bevuto. Il padre tirò fuori le sue pezze e continuò a fare il sarto e il figlio andò a lavorare a bottega.

Il secondo figlio aveva imparato il mestiere da un mugnaio. Finiti gli anni di tirocinio, il padrone gli disse:
- Ti sei comportato cosi bene, che ti regalo un asino speciale: non tira il carretto e non porta sacchi.
- E a che serve? - domandò il giovane garzone.
- Butta oro! - rispose il mugnaio: - se lo metti su un panno e dici: « Briclebrit », questa buona bestia butta monete d'oro, di dietro e davanti.
- E' una bella cosa! - disse il giovane; ringraziò il padrone e se ne andò per il mondo. Quando aveva bisogno di denaro, bastava che dicesse al suo asino: « Briclebrit! » e piovevan monete d'oro; la sua sola fatica era di raccoglierle da terra. Dovunque andasse, non gli garbavan che le cose più fini, e quanto più care tanto meglio, perché aveva la borsa sempre piena. Dopo aver girato un po il mondo, pensò: « Dovresti tornar da tuo padre: se arrivi con l'asino d'oro, scorderà la sua collera e ti accoglierà bene ».
Ora avvenne ch'egli capitò nella stessa locanda in cui avevano sostituito il tavolino a suo fratello. Se ne arrivò con il suo asino, e l'oste voleva prender l'animale e legarlo, ma il giovane disse:
- Non datevi pena, il mio Rabicano lo porto io nella stalla e lo lego io; devo saper dov'è -.
La cosa parve strana all'oste, che pensò: « Uno che al suo asino deve provveder da sé, non ha certo molto da spendere ». Ma quando il forestiero trasse di tasca due monete d'oro e gli disse di badar solo a comprargli qualcosa di buono, fece tanto d'occhi e corse a cercar il meglio che potesse trovare. Dopo pranzo, il giovane chiese quanto gli dovesse; l'oste non volle lesinare nel conto e gli disse che ci volevano altre due monete d'oro. Il garzone frugò in tasca, ma l'oro era alla fine.
- Aspettate un attimo, signor oste, - disse, - vado soltanto a prendere il denaro -.
Ma portò con sé la tovaglia. L'oste, che non sapeva come spiegar la cosa, pieno di curiosità, lo segui pian piano; e poiché l'altro chiuse la porta della stalla col catenaccio, sbirciò da una fessura. Il forestiero stese la tovaglia sotto l'asino, disse: « Briclebrit! » e subito dalla bestia cadde una vera pioggia d'oro, di dietro e davanti.
- Capperi! - disse l'oste: - è presto fatto coniar ducati! Non è male un simile borsellino! -
Il giovane pagò e andò a dormire; ma durante la notte l'oste scese di nascosto nella stalla, portò via il direttore della zecca e legò un altro asino al suo posto. La mattina dopo, di buon'ora, il garzone se ne andò con la bestia, credendola il suo asino d'oro. A mezzogiorno arrivò dal padre che, tutto lieto di rivederlo, l'accolse con gioia.
- Cosa sei diventato, figlio mio? - gli domandò il vecchio.
- Mugnaio, caro babbo, - rispose.
- Cos'hai portato dal viaggio?
-Soltanto un asino.
- Asìni ce n'è abbastanza anche qui, - disse il padre, - sarebbe stato meglio una bella capra.
- Si, - rispose il figlio, - ma non è un asino comune, è un asino d'oro; se dico: « Briclebrit! » la buona bestia vi riempie di monete d'oro una tovaglia. Fate venire i parenti, che li faccio tutti ricchi.
- Benissimo! - disse il sarto: - cosi non ho più bisogno d'affaticarmi con l'ago -.
E corse a chiamare i parenti. Appena furon tutti riuniti, il mugnaio fece far posto, stese la tovaglia e portò l'asino nella stanza.
- Adesso state attenti, - disse; e gridò: - Briclebrit! - Ma non caddero precisamente monete d'oro, e apparve chiaro che la bestia non conosceva affatto quell'arte: perché non tutti gli asini ci arrivano. Allora il povero mugnaio fece la faccia lunga, accorgendosi d'essere stato ingannato, e domandò scusa ai parenti, che tornarono a casa, poveri com'eran venuti. Non c'era scampo: il vecchio dovette riprender l'ago e il giovane entrò a servizio da un mugnaio.

Il terzo fratello era andato a imparar il mestiere da un tornitore; ed essendo un mestiere raffinato, dovette far pratica più a lungo. Ma i fratelli gli narrarono per lettera le loro disgrazie, e come proprio l'ultima sera l'oste li avesse derubati dei loro begli oggetti magici.
Quando il tornitore ebbe finito il tirocinio e dovette partire, per la sua buona condotta il padrone gli regalò un sacco e gli disse:
- C'è dentro un randello.
- Il sacco me lo metterò in spalla e può ben servirmi, ma che ci fa il randello? è soltanto un peso.
- Te lo dirò, - rispose il padrone: - se qualcuno ti ha fatto del male, basta che tu dica: « Randello, fuori del sacco! » e il randello salta fuori e balza così allegro sulla schiena della gente, da farla stare otto giorni a letto; e non la smette se tu non dici: « Randello, dentro nel sacco! » -
L'apprendista lo ringraziò, si mise il sacco in spalla e se qualcuno gli veniva addosso per aggredirlo, egli diceva: « Randello, fuori dal sacco! » E subito il randello saltava fuori e li spolverava l'un dopo l'altro sulla schiena, e non la smetteva finché c'era giubba o farsetto; e andava cosi svelto, che non te l'aspettavi ed era già il tuo turno.
La sera, il giovane tornitore giunse all'osteria dov'erano stati ingannati i suoi fratelli. Mise il suo sacco accanto a sé sulla tavola e cominciò a raccontare tutte le meraviglie vedute per il mondo.
- Già, - disse, - ci si può trovare un tavolino magico, un asino d'oro e simili: bellissime cose, che io non disprezzo; ma tutto questo è nulla a confronto del tesoro che mi son guadagnato e che ho qui nel mio sacco -.
L'oste tese gli orecchi: « Che può mai essere? - pensò: - il sacco è certo pieno di gemme; mi parrebbe giusto averlo: non c'è due senza tre ». Quando fu l'ora di dormire, il forestiero si coricò sulla panca e si mise il sacco sotto la testa, come cuscino. Quando lo credette immerso nel sonno, l'oste gli si avvicinò, e pian piano e con gran cautela smosse e tirò il sacco, cercando di toglierlo e di sostituirlo con un altro. Ma il tornitore se l'aspettava da un pezzo, e, appena l'oste volle dare uno strattone vigoroso, egli gridò:
- Randello, fuori dal sacco! - Subito il randello saltò addosso all'oste e gli spianò le costole di santa ragione. L'oste gridava da far pietà, ma più gridava, più forte il randello gli batteva il tempo sulla schiena, finché egli cadde a terra sfinito. Allora il tornitore disse:
- Se non rendi il tavolino magico e l'asino d'oro, ricomincia il ballo.
- Ah no, - esclamò l'oste, sgomento: - restituisco tutto ben volentieri, purché ricacciate nel sacco quel maledetto diavolo -.
Allora il garzone disse: - Sarò misericordioso, ma non cercar di nuocermi! - Poi gridò: - Randello, dentro nel sacco! - e ve lo lasciò.
La mattina dopo il tornitore andò da suo padre col tavolino magico e l'asino d'oro. Il sarto, felice di rivederlo, domandò anche a lui che cosa avesse imparato fuori di casa.
- Caro babbo, - rispose, - son diventato tornitore. - Un mestiere raffinato, -
Rispose il padre: - Cos'hai portato dal viaggio?
- Un oggetto preziosissimo, caro babbo, - rispose il figlio, - un randello nel sacco!
- Come! - esclamò il padre: - Un randello! valeva la pena! Puoi tagliartelo da qualunque albero.
- Ma non uno come questo, caro babbo; quando dico: « Randello, fuori del sacco! » salta fuori e concia per il di delle feste ogni malintenzionato, e non la smette prima che giaccia a terra e implori grazia. Vedete, con questo randello mi son ripreso il tavolino magico e l'asino d'oro, che quel ladro di un oste aveva rubato ai miei fratelli. Adesso fateli chiamare entrambi e invitate tutti i parenti. Voglio che mangino e bevano e si riempiano le tasche d'oro -.
Il vecchio sarto si fidava poco, ma riunii parenti. Allora il tornitore stese un panno nella stanza, portò dentro l'asino e disse al fratello:
- Adesso parlagli, caro fratello -.
Il mugnaio disse: « Briclebrit! » e all'istante le monete d'oro caddero sul panno come uno scroscio di pioggia; e l'asino non la smise, finché tutti non furon carichi da non poterne più. (E anche tu, vedo, avresti voluto esserci).
Poi il tornitore andò a prendere il tavolino e disse: - Parlagli, caro fratello -.
Il falegname disse: - Tavolino, apparecchiati! - ed eccolo apparecchiato e copiosamente fornito di piatti squisiti. Fecero un pranzo, quale il buon sarto non aveva ancor visto in casa sua, e restarono tutti insieme fino a tarda notte, allegri e contenti.
Il sarto chiuse in un armadietto ago e filo, il metro e il ferro da stirare, e fece con i suoi tre figli una vita da principe.
Ma dov'è finita la capra, colpevole di aver spinto il sarto a scacciare i tre figli? Te lo dirò. Si vergognava della sua pelata e corse a rannicchiarsi in una tana di volpe. Quando la volpe rincasò, si vide sfavillar di fronte nell'oscurità due occhiacci, e fuggi via con gran terrore. Incontrò l'orso, che vedendola cosi turbata disse:
- Cosa ti succede, sorella volpe? perché hai quella faccia?
- Ah, - rispose Pelorosso, - nella mia tana c'è un mostro, che spalanca due occhi fiammeggianti.
- Lo cacceremo fuori, - disse l'orso; l'accompagnò alla tana e guardò dentro; ma quando scorse quegli occhi di fuoco, fu preso anche lui dalla paura: non volle cimentarsi col mostro e se la diede a gambe. Incontrò l'ape che, vedendolo cosi a disagio, disse:
- Orso, che brutta faccia hai! Dov'è andata la tua giovialità?
- Hai un bel dire, - rispose l'orso, - nella tana di Pelorosso c e un - mostro con gli occhiacci e non possiamo cacciarlo fuori -.
Disse l'ape: - Mi fai pena, orso; io sono una povera e debole creatura, che per strada voi non guardate neanche; ma credo di potervi aiutare -.
Volò nella tana, si posò sulla testa pelata della capra e la punse con tanta forza, che quella saltò su, gridando:
- Mèee! mèee! - e corse fuori come pazza. E finora nessuno sa dove sia andata.


di Jachob e Wilhelm Grimm [color=darkred:ee0b794fc7][/color:ee0b794fc7]
 



 
Volodja Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio  
 
[color=darkred:d508de24d4][size=18:d508de24d4]TOPI DANNO IN SPOSA LA LORO FIGLIA[/size:d508de24d4]
[/color:d508de24d4]
Una coppia di topi aveva una figlia molto bella in età da marito. Padre e madre desideravano scegliere per lei una famiglia nobile e prestigiosa affinchè ella non dovesse più vivere in un buco tetro come il loro e non fosse, come loro, perennemente preoccupata.
Dapprima pensarono al Sole, in quanto esso può illuminare tutta la Terra ed è da lui che dipende la vita di tutti gli esseri viventi!
Quando gli presentarono la loro richiesta, il Sole pudicamente rispose:
«È impossibile, io non sono così potente come voi immaginate, poiché è sufficiente una nuvola nera per oscurarmi. È lei che è più forte di me».
I topi andarono dalla Nuvola nera, la quale, dopo averli ascoltati, sospirò e, scuotendo la testa, disse:
«Ma, se il vento soffia, io non posso difendermi».
Allora, i due sposi si rivolsero al Vento.
Questi disse loro: «Neppure io sono degno di vostra figlia. Se, mentre soffio, urto un muro, io non posso oltrepassarlo».
Il Muro, interrogato, rispose loro: «Benchè io possa sbarrare la strada al vento, i topi mi scavano, fanno dei buchi, provocando così la mia caduta. Sono indegno di diventare vostro genero».
Alla fine del colloquio con il Muro, i due topi compresero che dovevano scegliere per la figlia uno sposo appartenente alla loro specie.
Tuttavia, tutti i loro sforzi non furono vani, in quanto ne ricavarono un’idea.
Si posero quindi la seguente domanda: che cosa faceva loro più paura? La risposta fu: il gatto. Ne dedussero, quindi, che era il gatto ad avere il maggior prestigio e ad essere il più nobile di tutti gli esseri.
Essi andarono immediatamente dal Gatto per chiedergli se per caso avesse voluto accettare la mano della loro figlia. Il Gatto accettò subito con gioia.
Al colmo della contentezza, i topi ritornarono a casa e si misero a preparare la dote della loro amata figliola.
Ben presto venne decisa la data del matrimonio.
Il giorno delle celebrazioni, tutti gli invitati erano molto felici per il grande avvenimento. Alcuni di essi suonavano degli strumenti a fiato, altri degli strumenti a percussione, altri ancora portavano delle lanterne. La giovane sposa salì sulla portantina e venne condotta in corteo alla casa del suo futuro marito. Una volta giunta questi l’accolse facendone un sol boccone!
Questa favola dimostra che non bisogna mai mirare troppo in alto.

Fiaba cinese
 



 
Volodja Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio  
 
Scavando nei ricordi di un bambino ormai lontano ma sempre vivo:

FAVOLE ESOPO
La sotria della vita, le opere di Esopo e le fiabe di Esopo.
favolista greco (VI sec. a.C.). Secondo una tradizione biografica romanzesca, fu di origine frigia, schiavo e gobbo. Visse a Samo, ma viaggiò in Oriente e in Grecia. Sarebbe morto in seguito a un processo per furto intentatogli dagli abitanti di Delfi, da lui beffati. Sono giunte sotto il suo nome centinaia di favole, che costituiscono il corpus Aesopianum: si tratta per lo più di ingenui e garbati apologhi di animali (sostituiti agli uomini e operanti come gli uomini), ispirati a una morale comune e popolare.

La favola di Esopo consiste nella narrazione agevole e piana di una semplice vicenda, i cui protagonisti sono generalmente animali (leone, cane, volpe, rana, ecc.), ma talvolta anche uomini, per lo più identificati attraverso la loro professione (vasaio, pescatore, pastore, taglialegna, ecc.).Nei brevi quadri, che mostrano grande naturalezza evocativa e profonda conoscenza delle passioni umane, e dove gli animali sono caratterizzati attraverso una tipologia psicologica convenzionale, la favola si conclude secondo i canoni di etica pratica, ma non priva di una sua rilevanza, i cui intenti di ammaestramento furono sottolineati, in età più tarda, da un esplicito enunciato morale, sorto nell'ambito della scuola.


Esopo dovette scrivere in ionico, ma la stesura originaria delle sue favole subì alterazioni e contraffazioni di ogni genere tanto che è impossibile rintracciare la fisionomia genuina dello scrittore: egli non è, per noi, che un nome sotto il quale è stata tramandata una produzione favolistica anonima, scritta in tempi diversi. Edizioni alterate delle sue favole si ebbero sin dal VIV sec. a.C. Spunti esopiani si riscontrano, nell'Evo Antico, in oratori e filosofi, in Callimaco e in Orazio. Diretti imitatori delle favole di Esopo sono i latini Fedro (sec. I) e Aviano (sec. IV-V) e il greco Babrio (II sec.).

Esopo, dallo spirito argutissimo e geniale, compose numerose favole, spesso
riferite agli animali, ma con trasparenti allusioni al mondo degli uomini.
Le redazioni a noi giunte delle favole di Esopo sono dell'età ellenistica:
si tratta di 400 favole brevi e di stile sobrio, concluse da una breve
morale. I personaggi sono per lo più animali, ma anche uomini e dèi, o
piante.

[b:3e422f7346][color=red:3e422f7346]La cicala e le formiche[/color:3e422f7346][/b:3e422f7346]

In inverno, essendosi bagnati i chicchi di grano, le formiche li esposero all'aria; una cicala invece che aveva fame chiedeva loro del cibo.
E le formiche le dissero:
"Perché durante l'estate non hai raccolto del cibo?".
E quella disse:
"Non sono stata in ozio, ma ho cantato armoniosamente".
E quelle mettendosi a ridere dissero: "Ebbene, se nelle giornate d'estate hai cantato, d'inverno balla".

La favoletta mostra che non bisogna essere negligenti per non affliggersi ed essere in pericolo.

-----------------------------------------

[color=red:3e422f7346][b:3e422f7346]IL NIBBIO CHE VOLEVA NITRIRE.[/b:3e422f7346][/color:3e422f7346]

Il nibbio, durante il primo periodo della sua esistenza, aveva posseduto una voce, certo non bella, ma comunque acuta e decisa. Egli, però, era sempre stato nutrito da una incontenibile invidia di tutto e di tutti. Sapeva di essere imparentato con l'aquila, ma questo, invece di costituire un vanto, non faceva altro che alimentare la sua gelosia: capiva di essere inferiore e si rodeva dalla rabbia per questo. Invidiava gli uccelli variopinti come il pappagallo e il pavone, lodati e vezzeggiati da tutti. Inoltre, si mostrava sprezzante nei riguardi dell'usignolo, dicendo tra sé:

"Sì, ha una bella vocetta ma é troppo delicata e romantica! Roba da donnicciole! Se devo cercare di migliorare la mia voce certamente non prenderò come esempio questo stupido uccello. Io voglio una voce forte, che si imponga sulle altre!"
Era un bel giorno di primavera. Il nibbio se ne stava tranquillamente appollaiato sopra un ramo di faggio, riparato dalle fresche fronde della pianta. Inaspettato, giunse un cavallo accaldato che, cercando un po' di refrigerio, andò a riposarsi all'ombra dell'albero.

Sdraiandosi con l'intenzione di fare un sonnellino, l'equino, inavvertitamente si punse con un cardo spinoso e, dal dolore, lanciò un lungo e acutissimo nitrito.
"Oh, che meraviglia!" Esclamò il nibbio con entusiasmo. Questa é la voce che andrebbe bene per me: acuta, imponente e inconfondibile!"

Il nibbio cominciò da quel mattino, ad esercitarsi nell'imitazione di quel verso meraviglioso. Provò e riprovò scorticandosi la gola, ma inutilmente. Quando, dopo molti tentativi senza successo, si rassegnò a tornare alla sua voce originale, ebbe una brutta sorpresa: gli era sparita a furia di sforzarla! Cosi dovette accontentarsi di emettere un suono insignificante e rauco per tutta la vita!

Chi, mosso da invidia, cerca di imitare ciò che è al di fuori della sua natura, perde anche le proprie doti originali.

-----------------------------------------

[color=red:3e422f7346][b:3e422f7346]Il corvo e la volpe[/b:3e422f7346][/color:3e422f7346]

Un corvo aveva rubato un pezzo di carne ed era andato a posarsi su di un albero. Lo vide la volpe e le venne voglia di quella carne. Si fermò à suoi piedi e cominciò ad adularla, facendo grandi lodi del suo corpo perfetto e della sua bellezza, della lucentezza delle sue penne, dicendo che nessuno era più adatto dì lui ad essere il re degli uccelli, e che lo sarebbe diventato senz'altro, se avesse avuto la voce.

Il corvo, allora, volendo mostrare che neanche la voce gli mancava, si mise a gracchiare con tutte le sue forze, e lasciò cadere la carne

La volpe si precipitò ad afferrarla e beffeggiò il corvo soggiungendo: " Se, poi, caro il mio corvo, tu avessi anche il cervello, non ti mancherebbe altro, per diventare re ".

-----------------------------------------

[b:3e422f7346][color=red:3e422f7346]Il leone e il topo[/color:3e422f7346][/b:3e422f7346]

Mentre un leone dormiva in un bosco, topi di campagna facevano baldoria. Uno di loro, senza accorgersene, nel correre si buttò su quel corpo sdraiato. Povero disgraziato! Il leone con un rapido balzo lo afferrò, deciso a sbranarlo. Il topo supplicò clemenza: in cambio della libertà, gli sarebbe stato riconoscente per tutta la vita. Il re della foresta scoppiò a ridere e lo lasciò andare.

Passarono pochi giorni ed egli ebbe salva la vita proprio per la riconoscenza del piccolo topo. Cadde, infatti, nella trappola dei cacciatori e fu legato al tronco di un albero. Il topo udì i suoi ruggiti di lamento, accorse in suo aiuto e, da esperto, si mise a rodere la corda. Dopo averlo restituito alla libertà, gli disse:
- Tempo fa hai riso di me perché credevi di non poter ricevere la ricompensa del bene che mi hai fatto. Ora sai che anche noi, piccoli e deboli topi, possiamo essere utili ai grandi.

-----------------------------------------

[b:3e422f7346][color=red:3e422f7346]La volpe e l'uva[/color:3e422f7346][/b:3e422f7346]

Una volpe che aveva fame, come vide su una vite dei grappoli sospesi, volle impadronirsene ma non poteva.
Allontanandosi disse fra sé: "Sono acerbi". Così anche alcuni uomini, non potendo raggiungere i propri scopi per inettitudine, accusano le circostanze.

-----------------------------------------

[color=red:3e422f7346][b:3e422f7346]IL LEONE, L'ORSO E LA VOLPE[/b:3e422f7346][/color:3e422f7346]

Quella mattina un grande orso bruno, era proprio affamato. Vagava con la lingua di fuori per la foresta in cerca di un po' di cibo quando all'improvviso vide, nascosto tra i cespugli, un bel cesto ricolmo di provviste abbandonato sicuramente da qualche cacciatore. Fuori di sé dalla gioia si tuffò su quell'insperato tesoro culinario ma, proprio nello stesso momento ebbe la medesima idea anche un grosso leone che non mangiava da alcuni giorni. I due si trovarono faccia a faccia e si studiarono con espressione rabbiosa.

'Questo cesto appartiene a me!" Urlò l'orso.

"Bugiardo!" Ruggì il leone infuriato.

In men che non si dica esplose una lotta terribile tra i contendenti i quali si azzuffarono insultandosi senza riserva. Intanto, poco distante, una giovane volpe passeggiava tranquilla per il bosco occupandosi delle proprie faccende. All'improvviso venne attirata da insolite urla e si avvicinò al luogo di provenienza per scoprire di cosa si trattasse.

Appena vide i due animali impegnatissimi a lottare come matti ed il cesto di cibo abbandonato vicino a loro, le balenò un'idea. Quatta, quatta si avvicinò al paniere, lo afferrò e fuggi via andando a mangiare in pace in un luogo sicuro. Quando, sia il leone che l'orso, sfiniti per l'estenuante baruffa sostenuta, decisero di spartirsi le provviste dovettero fare i conti con un'amara sorpresa. Il cesto era sparito e al suo posto trovarono unicamente le impronte di una volpe, sicuramente molto furba!

E' inutile contendersi violentemente qualcosa che, a causa della nostra distrazione, può diventare patrimonio di un'altra persona!

-----------------------------------------

[color=red:3e422f7346][b:3e422f7346]IL TOPO E LA RANOCCHIA[/b:3e422f7346][/color:3e422f7346]

Un dolcissimo topolino di campagna, col musetto simpatico e due occhioni scuri, vagando tutto solo per i campi, incontrò un bel giorno una buffa sgraziata ranocchia. Osservandosi al principio dubbiosi, i due fecero ben presto amicizia.
"Sai, mi piacerebbe sapere come ti procuri il cibo!" Chiese quella. " Oh, bè," borbottò il topolino con la testa bassa "non é che io sia un gran campione... anzi, faccio enorme fatica a trovare qualcosa da mettere sotto i denti" -
" Ehi!" Gridò la rana "che ne diresti se andassimo insieme a caccia di cibarie? In due di sicuro avremmo più fortuna! Potremmo legarci con una catena l'un all'altro così da essere sicuri di non perderci! " Il topolino rimase un istante a riflettere, quindi disse: " Mi sembra una buona idea!" E così fecero.

Legati insieme i due si diedero da fare per cercare del cibo e bisogna dire che ne trovarono proprio tanto! Quando, alla fine della giornata furono veramente sazi, si in camminarono verso casa. Ancora incatenati, giunsero allo stagno della ranocchia e questa, senza pensarci due volte, si tuffò decisa nell'acqua trascinandosi dietro il povero topino che, non sapendo nuotare si mise a urlare e cominciò a dibattersi per non annegare.

Un nibbio, osservando dal cielo tutto quel trambusto e vedendo il povero topo ormai privo di sensi pensò di aver trovato un buon bocconcino. Si precipitò allora sullo stagno e afferrò con gli artigli il corpo del topino al quale era legata anche la ranocchia. Risvegliato dalle grida della rana, il topolino iniziò, coi suoi dentini aguzzi, a morsicare le zampe del volatile il quale aprì gli artigli per il male e li lasciò ricadere. I due toccarono il suolo senza farsi male ma decisero subito di togliersi quella catena che gli aveva procurato tanti guai!

Quando si decide di legarsi a qualcuno con un vincolo d 'amore o di amicizia bisogna ricordare che ogni persona ha esigenze diverse dall'altra ed è necessario, per quanto possibile assecondare i desideri di entrambi i componenti la coppia.


...continua...
 




____________
E' inutile discutere con un idiota...prima ti porta al suo livello e poi ti batte per esperienza.

Forum Russia Italia
Visto per la Bielorussia

Andrea
 
Mystero Invia Messaggio Privato Invia Email HomePage ICQ MSN Live
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio Re: Le Favole 
 
Vassilissa la bella

C'era una volta un mercante. In dodici anni di matrimonio aveva avuto solo una figlia, Vassilissa, che era bellissima.
Sua moglie morì quando la piccola aveva otto anni. Sentendo la fine avvicinarsi, la madre chiamò a sé la bambina, e da sotto le coperte tirò fuori una bambolina che come Vassillissa indossava stivaletti rossi, grembiulino bianco, gonna nera e corsetto ricamato e le disse:
“Ascolta le mie ultime parole, e ubbidisci alle mie ultime volontà. Prendi questa bambola, è il mio dono per te con la mia benedizione materna; conservala con cura, non mostrarla a nessuno, e nutrila quando ha fame. Se ti troverai in difficoltà, chiedile aiuto, essa ti dirà che cosa fare.”
La donna strinse forte a sé la figlia e morì. La bambina e suo padre a lungo piansero e si disperarono.
Il vedovo era un bell’uomo, che piaceva a molte donne, ma quando decise di risposarsi, egli si scelse in moglie una donna molto più giovane di lui, che era anch’essa vedova con due figlie della stessa età della sua bambina. La sua nuova moglie era una donna di classe, dai modi educati, insomma, appariva come un’ottima padrona di casa, eppure scelse la matrigna sbagliata per Vassilissa, poiché non era buona e affettuosa nei confronti della bambina.
La matrigna e le sorellastre erano invidiose della bellezza di Vassilissa.
La tormentavano di continuo impartendo ordini su ordini, e la caricavano di lavoro per farsi servire da lei tutto il tempo, e la mandavano anche a tagliare la legna, per far sì che il vento e il sole le rovinassero la pelle, e che il lavoro duro la facesse deperire.
Ma Vassilissa sopportava tutto senza mai lagnarsi né commiserarsi, e diventava ogni giorno più bella, aveva sempre un aspetto più candido e grazioso, mentre la matrigna e le sue figlie, le quali non uscivano mai e non muovevano mai un dito, al contrario diventavano sempre più brutte e si logoravano sempre più dall’invidia.
Esse non sapevano che Vassilissa aveva la bambolina che l’aiutava nelle incombenze, infatti, senza di essa la bambina non avrebbe mai potuto fare tutto da sola. La sera, quando tutti dormivano, la giovinetta si chiudeva nel suo angolino, a dar da mangiare alla fedele bambola e, infelice si sfogava con lei delle sue disgrazie:
“Bambolina mia, mangia ed ascolta le mie pene! Triste è la casa di mio padre, la matrigna cattiva vuole la mia morte. Dimmi, cos’è che devo fare?”
La bambola mangiava, poi consolava Vassilissa, la consigliava e al mattino faceva tutto il lavoro al suo posto.
Vassilissa si riposava all’aria fresca, coglieva dei fiori, si occupava dell’orto, puliva e preparava le verdure e le mise sul fuoco che aveva acceso. La bambola le indicò inoltre una preziosa erba contro gli arrossamenti della pelle.
Vassilissa crebbe e divenne una donna in età da marito. Tutti i ragazzi domandavano la sua mano, e nessuno sembrava interessato invece alle sue sorellastre. Allora la matrigna si mise a maltrattare ancora di più la figliastra e rispondeva ai pretendenti:
“Non farò mai sposare la mia figlia minore prima delle mie primogenite!”
E quando i giovani uomini se andarono, ella picchiò la figliastra per vendicarsi.
Un giorno il mercante dovette partire per un lungo viaggio, e la matrigna se ne andò ad abitare in una casa ai margini della foresta in cui viveva Baba-Jaga, la vecchia strega. Questa non lasciava nessuno avvicinarsi alla sua casa e aveva fama di essere mangiatrice di uomini.
Sperando prima o poi di sbarazzarsi di Vassilissa, la matrigna la mandava tutto il tempo nella foresta, in cerca di questo o quello, o a far legna, confidando che qualcosa di male potesse accaderle. Ma la ragazza tornava invece a casa ogni volta, grazie alla guida della bambola, che la teneva lontana dalla casa della strega.

Venne l’autunno. Le ragazze trascorrevano le lunghe serate l’una lavorando al merletto, l’altra a fare la maglia, e Vassilissa a filare il lino. La matrigna dava loro dei compiti per la notte e poi se ne andava a letto, lasciando solo una candela accesa a loro che lavoravano. Poi una delle sue figlie spense la candela con una pinza come la madre le aveva ordinato.
“Che disgrazia! Non abbiamo ancora finito il lavoro e non c’è più fuoco in casa e ora siamo al buio. Bisogna andare a chiederlo a Baba-Yaga! Chi ci va?”
“Io no” disse quella che stava lavorando al merletto “per me non ce n’è bisogno, coi miei spilli ci vedo bene!”
“Nemmeno io” disse l’altra “I miei aghi luccicano, quindi ci vedo bene lo stesso”
E tutte e due si rivolsero a Vassilissa: “Tu hai più bisogno di noi di luce, quindi tocca a te andare a cercare il fuoco da Baba-Yaga!”
E così dicendo la spinsero via dalla stanza. Vassilissa corse nel suo angolino per dare da mangiare alla bambola, e le disse in lacrime:
“Bambolina mia, mangia e ascolta la mia pena! Vogliono che vada da Baba-Yaga. Mi divorerà!”
“Non piangere” le rispose la bambola. Prendimi con te e portami tranquillamente là dove devi andare. Mentre io sono con te non può succederti niente.”
Vassilissa si mise in tasca la bambola e si rassegnò ad addentrarsi nella foresta oscura.
Nel bosco l'oscurità si faceva sempre più fitta, e i ramoscelli che le scricchiolavano sotto i piedi la riempivano di paura. Infilò la mano nella tasca del grembiule, dove nascondeva la bambola che la mamma le aveva dato, e subito si sentì meglio. E a ogni biforcazione Vassillissa infilava la mano nella tasca e consultava la bambola, e la bambola le indicava da che parte andare.
Improvvisamente un uomo vestito di bianco su un cavallo bianco passò al galoppo, e il cielo si fece più chiaro.
Poi proseguì il cammino e vide un altro cavaliere: questo era tutto rosso, vestito di rosso su un cavallo rosso. E allora si alzò il sole.
Solo verso sera Vassilissa giunse alla capanna di Baba-Yaga. La casa era fatta di ossa, di teschi e di occhi, ed era sorretta da colonne fatte di gambe umane. Le maniglie delle porte e delle finestre erano fatte con dita di mani e piedi umani, e il chiavistello era un grugno di denti appuntiti.
La povera ragazza tremò come una foglia vedendo tutto questo orrore, e in quel mentre giunse un terzo cavaliere tutto nero a bordo di un cavallo nero. A quel punto era notte, e gli occhi dei teschi si accesero, cosicché tutto intorno era luce come se fosse giorno. Vassilissa avrebbe voluto scappare e salvarsi, ma per la paura non riuscì a muovere un passo.
Di colpo si fece buio pesto nella foresta, mentre le foglie degli alberi frusciavano in modo sinistro, la spaventosa strega apparse. Veramente orrenda, viaggiava su un mortaio che si spostava da solo. Guidava questo veicolo con un remo a forma di pestello, e intanto cancellava le tracce alle sue spalle con una scopa fatta con capelli di persone morte da gran tempo. E il mortaio volava nel cielo con i capelli grassi di Baba-Yaga che svolazzavano dietro. Il lungo mento era ricurvo verso l'alto e il lungo naso verso il basso, così si incontravano al centro. Aveva una barbetta a punta tutta bianca e verruche sulla pelle. Le unghie nere erano spesse e ricurve e tanto lunghe che non poteva chiudere la mano a pugno.
Gridò a Vassilissa: “Sento odor di carne umana. Chi c’è qui?!”
Tutta tremante di paura, la povera ragazza s’avvicinò timidamente:
“Sono io, signora nonna, sono venuta perché le mie sorellastre mi hanno mandata a cercare legna per riaccendere il fuoco”
“Si, va bene, le conosco” rispose Baba-Yaga. Resterai qui per servirmi. Se farai un buon lavoro ti darò quel che cerchi, altrimenti ti mangerò!”
“Servimi a tavola tutto quello che c’è nel forno, e sbrigati, perché ho fame!”
Nel forno c'era cibo per dieci persone e Baba-Yaga lo mangiò tutto, lasciando una piccola crosta e un cucchiaio di minestra per Vassilissa.
"Lavami i vestiti, scopa il cortile e la casa, e separa il grano buono da quello cattivo e vedi che tutto sia in ordine. Se quando torno non avrai finito sarai tu il mio banchetto".
E Baba-Yaga volò via sul suo mortaio. E cadde di nuovo la notte.
“Domani, dopo che sarò andata via, spazzerai per bene in casa, pulirai dappertutto, mi preparerai la cena e farai il bucato. Poi macinerai il frumento. E bada bene che tutto sia ben fatto, altrimenti ti mangerò!”
Quindi andò a letto e russò fragorosamente. Vassilissa nutrì la bambola con i pochi resti della cena della strega e le disse piangendo:
“Piccola bambola, mangia bene e ascolta le mie pene! Se non faccio tutti questi lavori, Baba-Yaga mi mangia!”
“Non piangere, bambina,” le rispose la bambola. “Dormi tranquilla, che il mattino ha l’oro in bocca!”
Vassilissa si alzò prima dell’alba, ma la strega se ne era già andata. Presto gli occhi dei teschi si spensero e venne il cavaliere bianco e si fece giorno, e poi arrivò anche il cavaliere rosso.
Rimasta sola, fece il giro della casa, aspettando di trovare una mole di lavoro da fare e chiedendosi da dove avrebbe cominciato, quando vide che tutto era già stato messo a posto e tutto era fatto, mentre la bambola stava finendo di macinare gli ultimi chicchi di grano. Allora Vassilissa la baciò e:
“Come posso ringraziarti, mia adorata bambola! Tu mi hai salvato la vita!”
La bambola si arrampicò sulla tasca e disse: «Tu devi solo preparare il pranzo, poi potrai riposarti.”
La sera la tavola era pronta, presto il cavaliere nero venne e fu notte. Gli occhi dei teschi si erano nuovamente illuminati, le foglie sibilavano sinistramente, ed ecco che Baba-Yaga tornò. Vassilissa le corse incontro.
La strega le domandò se aveva fatto tutto.
“Vedi tu stessa, signora” rispose la giovane.
La strega ispezionò la casa, guardò dappertutto e non trovò niente da ridire, e grugnì: “Va bene, può andare..”
Chiamò poi i suoi fedeli servitori perché macinassero il frumento, e tre paia di mani comparvero a mezz'aria e cominciarono a raschiare e a pestare il frumento. La pula volava per la casa come una neve dorata. Quando fu tutto finito Baba-Yaga si sedette a mangiare. Mangiò per ore e ordinò a Vassillissa di pulire di nuovo tutta la casa, di scopare il cortile e lavarle i vestiti.
“Domani, oltre a quello che hai fatto oggi, dovrai setacciare, in quel mucchio di sporcizia, molti semi di papavero. Voglio una pila di semi di papavero e una pila di sporcizia, ben separati, altrimenti ti mangio!".
Si mise a letto e russò subito. Vassilissa mise da mangiare alla bambola e questa le disse come la sera prima:
“Vai pure a dormire tranquilla, tutto sarà fatto per quando tornerà domani sera, Vassilissa cara. Abbi fede, che il mattino ha l’oro in bocca!”
L’indomani, la strega partì, e Vassilissa e la bambola si diedero da fare in casa. Al suo ritorno, la strega esaminò il lavoro, guardando minuziosamente in tutti gli angoli della casa, e non trovò niente da dire, e chiamò i fedeli servitori come la sera prima affinché spremessero per bene i semi di papavero, e tre paia di braccia apparvero per obbedire alla strega. Quindi si mise a tavola, Vassilissa la servì in silenzio e la strega borbottò:
“Perché te ne stai senza proferir parola, tutta muta?”
[vassilissa nel bosco] “E’ che non oso, signora! Ma se me lo permetti, vorrei domandarti una cosa.”
“Domanda pure, ma ricordati che troppo saprai, presto invecchierai”
Vassillissa chiese dell'uomo bianco sul cavallo bianco.
“Quello è il mio giorno” rispose la strega.
“E quell’altro tutto vestito di rosso, chi è?”
“Quello è il mio sole ardente” rispose ancora.
“E poi ho visto anche un cavaliere nero” aggiunse Vassilissa.
“Quello è la mia notte fonda” rispose Baba-Yaga “Sono tutti e tre miei servitori fedeli!”
Vassilissa pensò ora agli altri tre, e tacque. Baba-Yaga disse: “Bhè? Non mi fai più domande?”
“No nonna. Come tu stessa hai detto, troppo saprai, presto invecchierai. Ora io so abbastanza”
“E brava” disse approvando la strega “hai voluto sapere di ciò che hai visto fuori, non su quel che succede dentro. Io sono abituata a lavarmi i panni in casa, quindi quelli che sono troppo curiosi io me li mangio!
E adesso è il mio turno di farti una domanda: come fai a fare tutti i lavori che ti assegno?”
“Con la benedizione della mia mamma che mi viene sempre in aiuto, signora.”
“Ah, è così, allora? Ebbene, ragazza benedetta, vattene, vattene subito di qui! Non ne voglio, di benedetti, in casa mia!”
E Baba-Yaga cacciò via Vassilissa, ma prima di chiudere la porta prese un teschio con gli occhi ardenti, e li mise su un bastone che le mise in mano a Vassilissa.
“Ecco il fuoco per le figlie della tua matrigna, prendilo! Dopo tutto, è per questo motivo che ti hanno mandata qui.”
Vassilissa se andò correndo nella foresta. Gli occhi del cranio le rischiaravano il cammino e si spensero solo all’alba. Camminò tutta la giornata, e verso sera, come giunse a casa, si disse: “Forse dopo tutto questo tempo si saranno procurate sicuramente altro modo di accendere il fuoco..” e pensò di gettare via il teschio, ma una voce le disse:
“Non buttarmi via, portami dalla tua matrigna!”
Vassilissa obbedì. Quando arrivò, si sorprese non poco di trovare la casa al buio, e più ancora il suo sbigottimento crebbe nel vedere la matrigna e le sorellastre accoglierla a braccia aperte.
Da quando era andata nella foresta, le dissero, non avevano più avuto modo di accendere il fuoco.
“Forse il tuo durerà di più” disse la matrigna.
Vassilissa portò dentro il cranio, e gli occhi ardenti si fissarono sulla matrigna e sulle sue figlie, seguendole dappertutto.
Invano esse tentarono di fuggire o di nascondersi, gli occhi le perseguitarono ovunque e prima dell’alba di loro rimasero solo le ceneri. Solo a Vassilissa non avevano fatto alcun male.
Al mattino Vassilissa sotterrò il cranio, sbarrò la porta e se ne andò in città, dove una vecchia signora l’ospitò nell’attesa che ritornasse il padre.
Un giorno, Vassilissa domandò all’anziana signora:
“Mi annoio a non far niente tutto il giorno, signora nonna! Se mi comprate del lino, io lo filo tutto!”
La vecchia le portò il lino e la ragazza si mise al lavoro, e il filo scorreva veloce tra le sue dita.
Finito che ebbe di filarlo, volle mettersi a tesserlo, ma c’era ancora la sua bambola che l’aiutava e le creò un bel lavoro.
Vassilissa si rimise all’opera e alla fine dell’inverno la tela era tessuta, così graziosa e sottile che avrebbe potuto farla passare per la cruna di un ago! A primavera fece sbiancare la tela, e Vassilissa disse alla vecchia signora:
“Và al mercato, nonna, vendi questa tela e tieniti i soldi che ne ricaverai.”
Ma la vecchia esclamò:
“Ma tu scherzi, mia cara! Un tessuto di tale pregio, merita di essere portato allo Zar.”
Ella si piazzò davanti al palazzo, e cominciò a passeggiare davanti alle finestre. Lo Zar la notò e la chiamò:
“Che fai lì, buona signora? Che cosa vuoi?”
“Ti porto una merce rara, come Vostra Maestà può vedere.”
Lo Zar fece entrare la vecchia e si meravigliò della tela:
“Quanto chiedi per questo tessuto, buona signora?”
“Una così preziosa stola non ha prezzo! Nessuno ha abbastanza denaro per comprarla, e solo lo Zar può averla. Te la regalo!”
Lo Zar ringraziò la vecchia che se ne andò carica di doni.
Lo Zar diede la stola ai suoi sarti, affinché ne facessero delle camicie. Essi fecero i modelli, ma riguardo al cucito, non ci fu nulla da fare! Nessun sarto osò toccare una tela di tal pregio.
Lo Zar, impaziente, andò a cercare la vecchia e le disse:
“Poiché tu hai tessuto la tela, tu sarai in grado di cucirmi le camicie!”
“Questa tela non è frutto delle mie mani, la mia figliola adottiva l’ha filata e tessuta.”
“Sta bene, sarà lei a cucire le mie camicie!”
Quando la vecchia raccontò la faccenda, Vassilissa sorrise:
“Lo sapevo che non poteva passare per lavoro fatto dalle mie mani!” e si mise a cucire.
La dozzina di camicie fu pronta in un battibaleno.
La vecchia le portò allo Zar, e Vassilissa ebbe un idea: si lavò, si pettinò, si vestì elegantemente e si piazzò davanti alla finestra. Poco dopo vide arrivare un messo dello Zar che disse alla vecchia:
“Dov’è quest’abile tessitrice? Sua Maestà lo Zar vuole ricompensarla di persona!”
Vassilissa si recò al palazzo e quando entrò lo Zar vedendola se ne innamorò a prima vista:
“Non ti lascerò più partire mia dolce creatura! Diventa mia moglie!”
Lo Zar prese per mano Vassilissa la bella, la fece sedere al suo fianco e celebrarono subito le nozze.
Ben presto il padre di Vassilissa tornò dal suo viaggio e fu molto felice della fortuna capitata a sua figlia ed andò a vivere con lei assieme alla vecchia signora.
E per tutta la vita Vassilissa portò con se, nella sua tasca, la sua fedele bambola.

Aleksandr Nikolaevic Afanas'ev
 



 
Volodja Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Rispondi Citando   Download Messaggio  
Messaggio Re: Le Favole 
 
Sinbad il Marinaio

Durante il regno del califfo Harùn ar-Rashìd, Emiro dei credenti, viveva nella città di Baghdad un uomo chiamato Sindbad il Facchino, il quale era molto povero e per guadagnarsi da vivere portava dei carichi sopra la testa.
Ora avvenne che un giorno di gran caldo, mentre trasportava una cesta assai pesante che lo faceva sudare e faticare moltissimo, il povero Sindbad si trovò a passare davanti alla porta di una ricca dimora. La strada davanti alla casa era stata spazzata e innaffiata e dal giardino veniva un delizioso venticello.
Vedendo che accanto alla porta c'era una panca, Sindbad depositò a terra la cesta e si sedette per riprendere fiato in quel luogo delizioso. E mentre stava seduto, asciugandosi il sudore e riflettendo sulla miseria della sua condizione, il vento gli portò dall'interno della casa il profumo di cibi squisiti, il suono di musiche e canti, un rumore di voci allegre e scoppi di risa e il cinguettare meraviglioso di uccelli d'ogni specie.
Allora Sindbad il Facchino alzò gli occhi al cielo e disse:
" Sia lode a te, o Allah, Creatore di tutte le cose, Signore Onnipotente che distribuisci la ricchezza e la miseria. Tu non devi rendere conto a nessuno di ciò che fai ed ogni uomo ha quel che gli tocca. Vi sono quelli, come il padrone di questa casa, che sono agiati e felici, e vi sono quelli che, come me, sono poveri e afflitti! Eppure siamo tutti di uno stesso seme. Ma a me è toccato in sorte portare carichi pesanti e ricevere in cambio solo miseria e afflizione. Scommetto che il padrone di questa casa non ha mai toccato nemmeno con un dito una cesta pesante come questa; eppure, egli si ristora al fresco di questo giardino. La sua sorte assomiglia alla mia quanto il vino assomiglia all'aceto. Tuttavia non credere, Signore, che io mi lamenti. Tu sei Grande, Magnanimo e Giusto. E se Tu governi così il mondo, vuol dire che è giusto che il mondo sia governato così! "
Quando ebbe terminato questa invocazione, Sindbad fece per rimettersi in capo la cesta e riprendere il cammino, allorché dalla porta della casa uscì un giovane servo, bello e ben vestito, il quale, presolo per mano, gli disse:
" Entra, perché il mio padrone desidera vederti. "
Sindbad lasciò la sua cesta in consegna al portinaio e seguì il servo, che lo introdusse in un meraviglioso salone dal pavimento di marmo, coperto di tappeti preziosi, e dove era imbandita una mensa ricchissima. Tutto intorno, su meravigliosi, cuscini, sedevano persone di riguardo; al centro, nel posto d'onore, sedeva un uomo dalla lunga barba bianca e dall'aspetto grave, dignitoso e nobile.
" Per Allah! " pensò Sindbad il Facchino, " questo luogo deve essere la dimora dì qualche re o di qualche sultano! "
Poi si ricordò di compiere quelli atti che esige la buona educazione e, dopo avere salutato rispettosamente gli astanti, si inginocchiò davanti al padrone di casa e baciò la terra. Con molta amabilità il padrone di casa gli diede il benvenuto, poi lo fece sedere accanto a sé le lo invitò a gustare cibi e bevande che il povero Sindbad non aveva mai assaggiato in tutta la sua vita. Quando questi ebbe finito di mangiare e si fu lavato le mani,
" Sia lode a Dio! " disse e ringraziò tutti i presenti per le loro gentilezze.
Come vogliono le buone regole, solo quando vide che il suo ospite si era rifocillato il padrone di casa prese ad interrogarlo:
" Benvenuto in casa mia, e che la tua giornata sia benedetta! Ma dimmi, o mio ospite, come ti chiami e che mestiere fai? "
" Mi chiamo Sindbad il Facchino, o signore, e il mio mestiere consiste nel portare carichi sulla testa. "
Il padrone di casa sorrise e gli disse: " Sappi, o facchino, che il tuo nome è uguale al mio; infatti, io mi chiamo Sindbad il Marinaio. Ora vorrei pregarti di ripetere qui ciò che dicevi poco fa mentre stavi seduto fuori della porta di casa mia. "
Allora Sindbad il Facchino si senti pieno di vergogna e disse:
" Nel nome di Allah, non rimproverarmi per la mia insolenza! La fatica e la miseria rendono l'uomo sciocco e maleducato! "
Ma Sindbad il Marinaio gli disse: " Non devi vergognarti. Ripeti senza alcuna preoccupazione ciò che dicevi perché tu ora sei come mio fratello. "
Allora il Facchino, rassicurato, ripete le parole che aveva pronunciato sulla porta di casa. Quando ebbe terminato, Sindbad il Marinaio si rivolse a lui e gli disse:
" Sappi, o Facchino, che la mia storia è senza precedenti. Ora ti racconterò tutte le avventure che mi sono capitate e tutte le prove che ho dovuto subire prima di giungere a questa felicità e di poter abitare nel palazzo in cui tu mi vedi. Sentirai quanti disagi e quali terribili calamità io abbia dovuto affrontare per poter ottenere gli agi che circondano ora la mia vecchiaia. Sappi dunque che io ho fatto numerosi viaggi, e ogni viaggio fu un'avventura meravigliosa, tale da destare in chi l'ascolta uno stupore senza limiti. Ma tutto ciò che ora ti racconterò è avvenuto perché era scritto, e da ciò che è scritto non v'è scampo né rimedio! ".

Primo viaggio di Sinbad il Marinaio

Sappiate, o illustri signori, e te, onesto Facchino, che mio padre era mercante di professione e uno dei più ricchi che ci fossero nel suo tempo. Quando mio padre morì, mi lasciò grandi ricchezze in denaro, merci, case e terreni. Io, purtroppo, nella insipienza della gioventù, presi a frequentare compagnie dissipate, passavo il mio tempo a bere e giocare e in festini e in conviti e non mi avvedevo che le mie ricchezze, per quanto grandi fossero, andavano sempre più scemando. Un giorno, finalmente, mi riscossi da quel mio stordimento e mi accorsi che tutte le mie sostanze erano dilapidate. Mi ricordai allora delle parole del nostro signore Salomone, figlio di Davide;
" Tre cose sono migliori di tre altre: il giorno della morte è meglio del giorno della nascita, un cane vivo è meglio di un leone morto, la tomba è preferibile alla povertà. "
Misi insieme allora quel poco che mi era rimasto e lo vendetti all'incanto ricavandone tremila dirham. Poi ricordai il verso del poeta:
"Chi vuole la gloria senza fatica, passerà la vita inseguendo un sogno impossibile."
[la balena ] Senza por tempo in mezzo, mi recai al suk, dove acquistai per duemila dirham di merci. Quindi con la mia roba salii su una nave, dove erano già imbarcati diversi mercanti, e scesi lungo il Tigri fino a Bassora. Di qui la nave spiegò le vele verso il mare aperto.
Viaggiammo per giorni e notti, toccando un'isola dopo l'altra e una terra dopo l'altra; e in ogni luogo dove ci fermavamo scendevamo a terra a vendere ed a scambiare le merci.
Un giorno, dopo che navigavamo da parecchio tempo senza avere avvistato un solo lembo di terra, improvvisamente vedemmo sorgere davanti a noi un'isola che sembrava il paradiso. Il capitano fece vela verso l'isola e, ormeggiata la nave, scendemmo tutti a terra, dove alcuni prepararono i fornelli per cucinare, altri si misero a passeggiare contemplando le bellezze del luogo. Io fui fra questi ultimi.
Mentre ce ne stavamo così, godendoci la bellezza di quel sito, a un tratto sentimmo la terra che tremava sotto i nostri piedi e udimmo il capitano che, sporgendosi dalla murata della nave, gridava:
" Passeggeri, salvatevi! Fate presto! Risalite subito a bordo! Lasciate ogni cosa, se tenete alla vita! Fuggite l'abisso che si spalanca sotto di voi! Perché l'isola su cui vi trovate non è un'isola, ma una balena gigantesca, che da tempo immemorabile si è adagiata in mezzo al mare. La balena è rimasta così da tanto tempo che il mare l'ha ricoperta di sabbia, e le sono cresciuti sul dorso gli alberi che vedete! Voi, accendendo i fuochi per cucinare, l'avete risvegliata, ed ecco che ora si muove e vi trascinerà con sé negli abissi! Salvatevi, abbandonate tutto! " .
Udendo queste parole del capitano, i passeggeri, presi dal terrore, si misero a correre verso la nave abbandonando le loro robe, i fornelli, le pentole. Ma la balena era già in movimento e la nave stava già levando le ancore, così che solo alcuni riuscirono a salire a bordo. Gli altri, quelli che si trovavano più lontano o che si erano attardati a raccogliere le loro cose, furono travolti dalle onde e sommersi nel mare profondo.
Io fui fra questi ultimi. Ma Allah Altissimo e Misericordioso mi salvò dalla morte facendomi capitare sotto mano un grosso mastello di legno, di quelli che si usano per fare il bucato. Io mi ci misi sopra a cavalcioni e muovendo disperatamente i piedi come fossero remi cercai di raggiungere la nave che si allontanava a vele spiegate. La seguii per un pezzo, finché non la vidi sparire all'orizzonte, e mi ritrovai in mezzo al mare, solo e derelitto, sicuro ormai di morire.
Per una notte e un giorno, fui sballottato dalle onde e dai venti. Alla fine le correnti marine mi gettarono contro un'isola rocciosa. Aiutandomi con le mani e con i piedi riuscii ad attaccarmi a dei cespugli e a salire in cima alle scogliere. Quando toccai terra, mi esaminai il corpo e vidi che era tutto gonfio e martoriato e che i piedi recavano i segni dei morsi dei pesci. Ma non sentivo alcun dolore, tanto ero sfinito. Mi gettai a terra e per la stanchezza svenni. Rimasi a lungo così, in questo stato d'incoscienza, e mi risvegliai solo al secondo giorno, quando il sole cominciò a battermi addosso.
[sulla spiaggia ] Feci per alzarmi in piedi ma le gambe, gonfie e piagate, non mi reggevano. Considerai la miseria del mio stato, ma con la forza della disperazione cominciai a trascinarmi per terra, fino a che, dopo molto patire, giunsi in mezzo ad una pianura, dove scorrevano ruscelli e crescevano alberi da frutta. Rimasi in quel luogo molti giorni, bevendo l'acqua dei ruscelli e mangiando la frutta, finché non mi sentii guarito e rifocillato. Quando fui in grado di alzarmi, mi fabbricai un bastone con il ramo di un albero e cominciai a passeggiare ammirando tutto ciò che Allah aveva creato su quella terra.
Un giorno, che camminavo lungo la spiaggia del mare, vidi di lontano qualcosa che mi parve essere una bestia selvaggia o un mostro marino. Curiosità e paura si combattevano in me, sì che facevo dieci passi avanti e cinque indietro. Alla fine mi feci coraggio e, avvicinandomi, potei vedere che si trattava di una bellissima giumenta, legata a un paletto sulla riva del mare. Mentre stavo là a contemplare la bestia, essa emise un alto nitrito ed ecco che da sotto terra sbucò un uomo, il quale mi venne dietro gridando:
" Chi sei tu? E da dove vieni? Per quale motivo ti sei avventurato fin qui? "
" Signore, " risposi, " sappi che io sono uno straniero e mi trovavo insieme ad altri passeggeri su una nave che ha fatto naufragio. Tutti i miei compagni sono morti, ma Allah mise fra le mie gambe un mastello che mi tenne a galla e così arrivai sino alle sponde di questa terra. "
Quando quell'uomo ebbe udito le mie parole, mi prese per mano e mi disse: " Seguimi! "
Scendemmo in una caverna sotterranea ed entrammo in una grande sala, dove mi fece sedere e dove mi portò da mangiare. Poiché avevo fame, mangiai di buon appetito e quando egli vide che ero rifocillato e il mio animo era tranquillo, mi chiese di raccontargli per filo e per segno tutto ciò che mi era accaduto; io gli raccontai la mia storia fin dal principio senza trascurare nulla, ed egli dimostrò grande meraviglia. Quando ebbi finito il mio racconto, gli dissi:
" In nome di Allah, signore, non prendertela con me se ora ti chiedo una cosa. Io ti ho raccontato la verità sulla mia condizione. Ora vorrei che tu mi dicessi chi sei e per quale motivo abiti in questa sala sotterranea e perché tieni una giumenta legata sulla riva del mare! "
[giumenta ] " Sappi, " mi rispose, " che siamo in parecchi sparsi sulle spiagge di quest'isola e siamo tutti guardiani dei cavalli del re Mihragiàn. Tutti i mesi, quando c'è la luna nuova, scegliamo una giumenta di razza e la leghiamo sulla riva del mare, poi ci nascondiamo in queste caverne sotterranee. Ed ecco che, attirato dall'odore della femmina, esce dal mare un cavallo marino e si guarda intorno e non vedendo nessuno piomba sulla giumenta e la copre. Quando ha finito di montarla si avvia verso il mare, ma la giumenta che è legata non può seguirlo e allora comincia a nitrire e a scalpitare. E il cavallo marino grida e la colpisce con la testa e con le zampe. Allora noi che siamo nascosti qui sotto sappiamo che il cavallo marino ha finito di montare la giumenta e usciamo fuori dal nostro nascondiglio e cominciamo a correre e a gridare e il cavallo marino spaventato si tuffa di nuovo tra i fiotti. Così la giumenta, fecondata, rimane pregna e partorisce un puledro che vale un tesoro, perché non ve ne sono di eguali sulla terra. E proprio oggi è il giorno in cui verrà il cavallo marino. Quanto a me, ti prometto di accompagnarti, quando tutto sarà finito, dal nostro re Mihragiàn e di farti conoscere il nostro paese benedici Allah, il quale ha fatto sì che io t'incontrassi, perché senza di me tu saresti morto di tristezza e di solitudine su quest'isola e nessuno dei tuoi amici e dei tuoi parenti avrebbe più saputo nulla di te. "
Invocai su di lui le benedizioni di Allah e lo ringraziai per la sua cortesia; e mentre stavamo ancora parlando, ecco che uscì dal mare lo stallone; si guardò intorno e, dopo aver cacciato un forte nitrito, saltò sulla cavalla e la coprì. Quando ebbe terminato smontò dalla giumenta e voleva portarsela via con sé, ma quella non poteva muoversi a causa del paletto, e tirava calci e nitriva. In quel momento uscì fuori dalla caverna il guardiano della giumenta con in mano una spada e uno scudo che percuoteva facendo un grande fracasso. E intanto andava chiamando i suoi compagni che sbucavano di sotto terra da tutte le parti, anch'essi gridando e facendo baccano. Allora lo stallone impaurito lasciò la giumenta e tuffatosi nelle acque sparì sotto la superficie del mare. Quando tutto fu finito, anche gli altri palafrenieri, che recavano a mano una giumenta ciascuno, mi vennero vicino e mi chiesero chi fossi e di dove venissi.

Io raccontai a loro tutta la mia storia, ed essi si felicitarono con me, poi stesero per terra la tovaglia e ci rifocillammo. Dopo mangiatO mi fecero salire su una delle loro cavalle, e così viaggiammo fino a che non giungemmo nella città dove abitava il re Mihragiàn. Giunti che fummo a destinazione, i palafrenieri si recarono dal loro sovrano e lo informarono del mio arrivo, e questi chiese che io gli fossi condotto dinanzi. Il re Mihragiàn mi salutò con molta amicizia, dandomi il benvenuto, poi mi chiese di raccontargli la mia straordinaria avventura e quando ebbi finito esclamò:
" Per Allah, figlio mio, la tua salvezza è davvero un fatto miracoloso! Se tu non fossi destinato a vivere a lungo, non saresti scampato al naufragio; sia lodato Allah che ti ha tratto in salvo! "
Ciò detto, mi parlò con amicizia e considerazione, colmandomi di doni e di onori, e mi nominò anche capo del porto incaricandomi di tenere il registro di tutte le navi che entravano e uscivano. Così io presi a frequentare regolarmente il sovrano, il quale non mancava di dimostrarmi la sua benevolenza preferendomi a tutti gli altri suoi intimi e ricoprendomi di vesti preziose.
Salii a tal punto nella sua stima che la gente, quando aveva bisogno di qualche cosa, chiedeva a me di intercedere presso il sovrano. Nonostante tutto questo, però, non avevo dimenticato il mio paese e, ogni volta che mi trovavo a passare per il porto e vedevo giungere una nave, mi affrettavo a interrogare ì marinai sulla mia città, chiedendo loro se avessero notizie di Baghdad. E invariabilmente quelli mi rispondevano di non aver mai sentito nominare una città simile e di non sapere nemmeno dove si trovasse. Mi convinsi così che non avrei mai più veduto il mio paese e avrei dovuto finire i miei giorni in terra straniera. Un giorno, recatomi a trovare il re Mihragiàn, lo trovai in compagnia di alcuni signori indiani i quali mi chiesero notizie del mio paese ed io chiesi ad essi notizie del loro. Costoro mi dissero che gli indiani erano tutti divisi in caste,e che le caste più importanti erano quella degli Kshatria, composta da uomini nobili e giusti che non commettevano mai soprusi né facevano violenza a nessuno, e quella dei Bramani, i quali sono della gente che non beve vino ma ama trascorrere la vita in lieta serenità e possiede cammelli, cavalli ed armenti. Mi dissero anche che il popolo indiano è diviso in settantadue caste, che non hanno rapporti fra loro, il che mi stupì grandemente.
Fra le altre cose che vidi nelle terre del re Mihragiàn, c'era un'isola chiamata Kasil, dove ogni notte e per tutta la notte si sentivano suonare tamburi e tamburelli; [sonatore di tamburo] ma sia gli abitanti delle isole vicine, sia i viaggiatori mi assicurarono che il popolo di quell'isola era composto da gente seria ed assennata. In quel mare vidi anche un pesce lungo duecento cubiti e molto temuto dai pescatori; vidi anche un altro pesce che aveva la testa simile a quella di un gufo e molte altre cose rare e meravigliose che sarebbe troppo lungo riferire.
Occupavo così il mio tempo visitando le isole, finché un giorno, che me ne stavo nel porto con il mio bastone in mano secondo l'abitudine che avevo preso, osservai una grande nave carica di mercanti che entrava in porto. Quando la nave si fu accostata alla banchina che è sotto le mura della città, il capitano ordinò di ammainare le vele e di ormeggiare il bastimento. Ciò fatto, misero fuori una passerella e i marinai cominciarono a scaricare le mercanzie mentre io, che stavo lì accosto, ne prendevo nota.
Alla fine chiesi al capitano: "E' rimasto niente altro nella tua nave? "
E quello mi rispose: " Signore, nella stiva sono rimaste diverse balle di mercanzia il cui proprietario è annegato durante il viaggio. Noi le abbiamo prese in consegna ed ora ci ripromettiamo di venderle facendone registrare il prezzo, che consegneremo poi ai parenti dello scomparso quando torneremo a Baghdad, città della pace. "
" E quale era il nome di questo mercante? " m'informai.
" Si chiamava Sindbad il Marinaio, " rispose il capitano.
Allora io lo guardai più dappresso e lo riconobbi e, gettato un gran grido, esclamai: " Capitano! Sappi che sono io quel Sindbad il Marinaio che viaggiava con voi; e quando il pesce si mosse e tu ci chiamasti, alcuni riuscirono a mettersi in salvo ed altri caddero in acqua; io fui fra questi. Ma Allah Onnipotente mi mise a portata di mano un mastello di legno al quale mi aggrappai, e i venti e le correnti marine mi gettarono su questa isola dove per grazia di Allah, incontrai alcuni servi del re Mihragiàn che mi condussero dal loro signore. E quando gli ebbi raccontato la mia storia egli mi colmò di benefici e mi nominò sovrintendente del porto. E in questa carica, come tu mi vedi, ho vissuto con larghezza, beneficato dal favore del sovrano. Perciò le balle che tu hai nella nave sono mie. "
Allora il capitano esclamò: " Non c'è maestà né potenza se non in Allah, il Glorioso, il Grande! Bisogna dire però che fra gli uomini non è rimasta né coscienza né buona fede! "
" Capitano, " dissi io, " Che significano queste parole, dopo che ti ho raccontato la mia storia? "
E quello rispose: " Quando hai sentito che avevo nella stiva queste merci il cui proprietario era annegato, hai pensato bene di volertele prendere con l'inganno. Ma non potrai farlo, perché noi l'abbiamo visto sprofondare nel mare con i nostri occhi, insieme con molti altri passeggeri, nessuno dei quali si è salvato. Quindi, come puoi pretendere di essere il padrone di queste merci? "
" Capitano, " dissi io, " ascolta tutta la mia storia senza prevenzioni e la verità ti apparirà manifesta. "
Così gli raccontai per filo e per segno tutto quanto mi era accaduto da quando ero partito da Baghdad fino al momento in cui eravamo sbarcati sul pesce isola, dove per poco non facemmo naufragio tutti; gli rammentai anche alcuni particolari che solo io e lui potevamo conoscere. Allora il capitano e i mercanti si convinsero che dicevo la verità e si complimentarono con me per la mia salvezza. Dopo di che il capitano mi consegnò le merci, e su ogni balla trovai scritto il mio nome e vidi che non mancava nulla. Cercai allora fra le mie robe e trovai un oggetto prezioso, e con quello mi recai dal sovrano al quale lo offrii in omaggio raccontandogli tutto quanto era avvenuto poco prima al porto.

Il re si stupì moltissimo di questo fatto e contraccambiò il mio regalo con ricchi doni. Nei giorni che seguirono, vendetti le mie merci guadagnando molto denaro e comprai altre mercanzie e oggetti tipici di quel paese. Poi, quando il capitano della nave mi annunciò che aveva intenzione di partire, andai dal re Mihragiàn, lo ringraziai della bontà che aveva avuto per me e gli chiesi licenza di tornare in patria, per rivedere il mio paese, la famiglia, gli amici.
Il re acconsentì di buon grado e mi regalò altre merci e prodotti della sua terra; poi mi congedò affabilmente e io, sceso al porto, m'imbarcai. Poiché così piacque ad Allah, viaggiammo senza inconvenienti per giorni e per notti e alla fine giungemmo a Bassora, dove sbarcai, felice di essere tornato sano e salvo sul suolo natio.
Rimasi alcuni giorni a Bassora, poi, portando meco grandi quantità di merci rare e preziose, partii per Baghdad, città della pace, ove entrai dopo un felice viaggio e, giunto nel mio quartiere e nella mia casa, amici e parenti vennero tutti a salutarmi e a rallegrarsi con me. Grazie al denaro che avevo, e alla gran copia di merci che avevo portato con me e che vendetti, acquistai eunuchi e concubine e schiavi e comprai case e giardini e terre, diventando cosi più ricco di quanto lo fossi stato prima.
Allora, senza darmi alcun pensiero al mondo, mi misi a frequentare gli amici trascorrendo con loro il tempo, dimentico dei pericoli, degli affanni e delle pene che avevo patito durante quel viaggio avventuroso. Gustai ogni piacere ed ogni delizia, mangiai cibi raffinati e bevvi vini squisiti, e andai avanti in questo modo per parecchio tempo, ché le mie ricchezze mi permettevano di condurre questo treno di vita.
Questa è la storia del mio primo viaggio, e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò il secondo dei miei numerosi viaggi. Quindi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date a Sindbad il Facchino cento monete d'oro e gli disse:
" La tua presenza ci è stata molto gradita oggi." Il Facchino lo ringraziò e, preso il dono, se ne andò per la sua strada, riflettendo su quanto aveva udito e non cessando di meravigliarsi per le cose incredibili che possono capitare a un uomo. Quando si fece giorno, tornò a casa di Sindbad il Marinaio, che lo ricevette con gentilezza e lo fece sedere accanto a sé. Non appena gli altri amici del padrone di casa furono arrivati, vennero approntate le mense e tutti mangiarono e bevvero a sazietà.

Da mille e una notte
 



 
Volodja Invia Messaggio Privato
Torna in cimaVai a fondo pagina
Mostra prima i messaggi di:    
 

Nuova Discussione  Rispondi alla Discussione  Pagina 1 di 1
 






 
Lista Permessi
Non puoi inserire nuovi Argomenti
Non puoi rispondere ai Messaggi
Non puoi modificare i tuoi Messaggi
Non puoi cancellare i tuoi Messaggi
Non puoi votare nei Sondaggi
Non puoi allegare files
Non puoi scaricare gli allegati
Puoi inserire eventi calendario