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ANTON CECHOV: lettere
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Messaggio ANTON CECHOV: lettere 
 
ANTON CECHOV
Scrivere evitando di far vibrare le corde dell'anima
Per circa quindici anni lo scrittore russo indirizzò una serie di lettere dotate di meravigliosa lucidità  a Aleksèj Suvòrin, il suo ricchissimo editore. Ora Rosellina Archinto ne pubblica una scelta pescando tra quelle che parlano di letteratura: un frammento minimo ma splendido dell'immane epistolario
Niente luoghi comuni, niente frasi fatte, niente lunghe divagazioni, ma dettagli precisi, incontrovertibili anche nella rappresentazione psicologica che deve essere sobria e misurata. Con questi principi Cechov compose duecentotrentanove racconti radicalmente innovativi sul piano della forma. Una sorta di grande e singolare enciclopedia della vita russa nella seconda metà  dell'800

di MARIO LAVAGETTO

Chi era Aleksèj Suvòrin? àˆ una domanda inevitabile al momento di prendere in mano le lettere che Antòn Cechov gli indirizza nell'arco di una quindicina di anni e che oggi vengono proposte, a cura di Fausto Malcovati, nella bella collana di epistolari pubblicata da Rosellina Archinto (Sulla letteratura, pp.194). Si tratta di una scelta dall'edizione in due volumi (di circa 1200 pagine) edita da Einaudi nel 1960, ben lungi a sua volta dall'essere una `edizione completa', come avvertiva una delle due curatrici, Gigliola Venturi, che dichiarava di avere «spigolato» negli otto volumi della raccolta originale. Ma qui si sono privilegiate (e l'idea è plausibile) solo le lettere che parlano di «letteratura» e che costituiscono una specie di spiraglio per guardare nell'officina di Cechov e per conoscere quali fossero i principi a cui si ispirava la sua poetica. Non sono più i tempi, purtroppo, in cui un editore poteva azzardare due volumi per l'epistolario, un altro (Mursia) mettere a disposizione le opere complete e un altro ancora (Feltrinelli) arrischiarsi a pubblicare, in una lussuosa ed elegante edizione, I taccuini del dottor Cechov. Non resta che accontentarsi, magari con un po' di rimpianto per l'eccessiva parsimonia che ha indotto a compiere qualche sacrificio inspiegabile: come la soppressione di una lunghissima e bellissima lettera, datata 18 ottobre 1888, in cui Cechov, che aveva progettato di scrivere un dramma a quattro mani con il suo corrispondente, gli fornisce una sorta di scheda anagrafica dei dieci personaggi che dovranno comparire in scena e intrecciare, intorno ai propri caratteri, una vicenda. Si tratta, tra l'altro di LeàÅ“ij, che una volta abbandonata l'idea della collaborazione, Cechov riprenderà  e svilupperà  in Zio Vanja.

Ma chi era dunque Aleksèj Suvòrin? Era, racconta Raymond Carver, «un ricchissimo editore di giornali e riviste, un reazionario, un uomo che si era fatto da sè. Suo padre aveva combattuto come soldato semplice nella battaglia di Borodino. Suo nonno era stato servo della gleba, proprio come quello di Cechov. In comune avevano dunque il fatto che nelle loro vene scorreva sangue contadino. Altrimenti, sia come carattere sia politicamente, i due erano quanto mai distanti. Nondimeno, Suvòrin era uno dei pochi amici intimi di Cechov e lo scrittore ne amava la compagnia.» Fu anche l'editore di Cechov fino al 1898 quando, da un lato le differenze ideologiche, incrementate dalla diversa valutazione del caso Dreyfus, e dall'altro un'offerta di pubblicazione dell'opera omnia da parte di un concorrente di Suvòrin, Adolf Fà«dorovic Marks, portarono alla rottura del contratto. Non alla rottura dei rapporti personali che rimasero, per quanto inevitabilmente allentati, molto cordiali. Il sintetico, e nell'insieme fedele ritratto fornito da Carver in uno splendido racconto sulla morte di Cechov, può essere integrato con quello che troviamo in una lettera a èceglòv, scritta nel luglio del 1888, e che arricchisce la fisionomia, la rende più sfumata e seducente: «Suvòrin è effettivamente la sensibilità  fatta persona. àˆ un grand'uomo. In arte egli è quello che è un setter nella caccia ai beccaccini, cioè lavora con un fiuto indiavolato ed è sempre pieno d'ardore e di passione. àˆ un cattivo teorico, non ha fatto studi, ignora molte cose, è in tutto un autodidatta - di qui il suo olfatto perfetto e integro, schiettamente canino, di qui anche l'indipendenza d'opinione. Essendo povero di teorie, ha dovuto per forza sviluppare in sè ciò di cui la natura l'aveva riccamente dotato, ha dovuto sviluppare il suo istinto sino alle dimensioni d'un grande ingegno.»

àˆ dunque a quest'uomo che, per circa quindici anni, Cechov indirizza - lui che dichiarava di «non saper scrivere lettere» - una serie di lettere di meravigliosa lucidità  e trasparenza, attraversate dall'umorismo che gli è proprio e sostenute da una grande, e nello stesso tempo semplicissima e artigianale, capacità  di elaborazione teorica. Gli parla - come vedremo - dei problemi della scrittura, di come si costruisce un racconto, della posizione che uno scrittore assume nei confronti della realtà ; dei suoi progetti; delle sue speranze; delle sue aspettative. Gli parla anche di se stesso, della sua vita di medico, della tenuta che ha comprato nei dintorni di Mèlichovo, della sua famiglia, ma sempre - nonostante il tono disinvolto e in apparenza volutamente indifeso - con una riservatezza e una cautela che sono tipiche di chi, in un appunto, aveva indicato nel «rispetto del segreto altrui» la principale linea di demarcazione tra l'uomo e gli altri animali. Non amava occhi indiscreti. «Questo - diceva - è il mio `io', sono 'affari miei' e nessuno ha il diritto di ficcarvi il suo naso bramoso di comprendere e d'intenerirsi!».

Si trattava di una sorta di codice d'onore, di educazione elementare articolata in pochi, ma tassativi articoli: non essere chiacchieroni, non fare confidenze, non accettare di umiliarsi per suscitare compassione, non far vibrare «le corde dell'anima altrui per essere compianti e coccolati», restarsene nell'ombra e non mettersi in mostra. «Non ho rubato - dirà  in un'altra occasione -, non ho mentito, non ho adulato i potenti nè ricercato il loro favore, non ho ricattato nessuno e non ho vissuto alle spalle altrui. Sì, è vero, ho trascorso la mia vita nell'ozio, ho riso follemente, ho mangiato a crepapelle, mi sono ubriacato, ho fornicato, ma tutto ciò riguarda me solo e non mi toglie il diritto di credere che, quanto a moralità , non sono nè superiore nè inferiore ai comuni mortali.»

C'è un connessione tra questo modo di presentare se stesso, di tenersi alla larga dalla morale superiore e dai grandi sistemi filosofici, tra questo programmatico pudore, questo riserbo, e il modo in cui Cechov costruisce il mondo delle sue novelle e del suo teatro: una connessione che si fa anche più esplicita ed evidente alla luce delle dichiarazioni di poetica che troviamo nelle lettere e che ci mettono sotto gli occhi una coniugazione, del tutto personale, di alcuni dei principi cardine del naturalismo. Se c'è qualcosa che Cechov sembra detestare, è il tentativo di procurarsi la complicità  del lettore con mezzi illeciti: seducendolo, cercando di impietosirlo, adulando le sue aspettative o puntando sulle sue viscere. Al fratello Aleksà ndr, che era un pubblicista e un modesto scrittore di racconti, rivolgeva, con un'acutezza spietata e appena addolcita dall'affettuosa ironia del tono, critiche implacabili: «Tu stilli lacrime dal principio alla fine... E, del resto, ne spargi in tutte le tue lettere, in tutti i tuoi scritti... si potrebbe pensare che [consisti] unicamente di ghiandole lacrimali».

Il soggettivismo - gli dichiara in un'altra occasione - è «una cosa tremenda», della quale tuttavia non è difficile liberarsi: «Basta essere più onesti: buttare se stessi a mare sempre e dovunque, non intrufolarsi nei protagonisti del proprio romanzo, rinnegare se stessi, non fosse che per mezz'ora.» E ancora: «Non inventare sofferenze che non hai provato, non descrivere paesaggi che non hai veduto - giacchè in un racconto la menzogna infastidisce assai più che in una conversazione.» Niente luoghi comuni, niente frasi fatte, niente lunghe divagazioni, ma dettagli precisi, incontrovertibili anche nella rappresentazione psicologica che deve essere improntata a misura e sobrietà . Perchè «si può inventare quel che si vuole, - diceva Tolstòj - ma non si può inventare la psicologia». «Abbi timor di Dio - ribadiva al fratello Aleksà ndr. - In nessuno dei tuoi racconti c'è una donna viva, sono tutti budini tremolanti che parlano il linguaggio delle smorfiose ingènues dei vaudevilles.»

Meno caustico, ma ancora più esplicito, Cechov si mostra in una lunga lettera a Suvòrin del 27 ottobre 1888, dove - con ammirevole chiarezza - cerca di spiegare a quell'uomo, che è, ricordiamolo, un cattivo teorico, alcuni dei principi fondamentali a cui si ispira il suo lavoro di scrittore, principi - dice - che non si stanca di ripetere nel corso delle sue conversazioni con i «confratelli». Non è compito del narratore impegnarsi nella soluzione di problemi specifici «che non capisce», ma deve limitarsi a «quello che capisce» e che appartiene a un campo estremamente limitato come quello di «qualsiasi altro specialista». Non è tenuto, nel suo lavoro, a fornire risposte, ma solo ed esclusivamente a porre dei problemi.

«L'artista osserva, sceglie, intuisce, associa; già  di per sè questi atti presuppongono, nel loro principio, un problema; se fin dall'inizio uno non si pone un problema, non ha nulla da intuire e nulla da scegliere. [...] Siete nel vero quando esigete dall'artista la consapevolezza del proprio lavoro, ma voi confondete due concetti: la soluzione del problema e la sua giusta impostazione. Per l'artista soltanto quest'ultima è obbligatoria.» E in un'altra occasione: «Vorreste che io, descrivendo i ladri di cavalli, dicessi: 'Rubare i cavalli è male'. Ma questo è già  noto da un pezzo, anche senza di me. Li giudichino pure i giurati, a me spetta soltanto di mostrarli come sono.»

In ogni circostanza il timbro della voce, insieme dubbiosa e consapevole, di Cechov è immediatamente riconoscibile e gli permette di dare, ai suoi corrispondenti, indicazioni di scrittura che troveranno poi puntuale, millimetrica conferma nella sua attività  di narratore: ricordarsi che la novella ha le sue convenzioni e che nel finale bisogna necessariamente concentrare il massimo di energia narrativa; evitare con ogni scrupolo i procedimenti consuetudinari e la routine, soprattutto nelle descrizioni della natura; «un cumulo di immagini - il crepuscolo, la luce plumbea, una pozzanghera, l'umidità , l'argenteo dei pioppi, l'orizzonte con le nuvole, i passeri, i prati lontani - non è un quadro» e non permette al lettore di chiudere gli occhi e di rappresentarsi di colpo il paesaggio che si vorrebbe descrivere. Basta prendere in mano uno dei racconti, anche di quelli scritti al debutto prima che - come diceva Thomas Mann - la letteratura bussasse alla sua porta, per accorgersi dello scrupolo con cui Cechov si attiene alle sue stesse prescrizioni: non bara, non trucca, usa gli aggettivi con estrema parsimonia, si considera in ogni circostanza debitore nei confronti della medicina («la moglie legittima» diceva) e dello spirito scientifico; e, per quanto sia consapevole dell'esistenza di norme artistiche tali da impedire, per esempio, che una morte per veleno venga rappresentata «così com'essa avviene effettivamente», ritiene che anche allora - anche nella reinvenzione - il lettore debba avvertire «l'adesione ai dati scientifici» e che lo scrittore rappresenta la vita così com'è e che più in là  non lo si farebbe andare «nemmeno con la frusta.»

Quando morì, a solo quarantaquattro anni di età , si lasciò alle spalle una vita molto intensa: aveva fatto il medico e - al momento di una terribile crisi di colera - aveva avuto la responsabilità  di venticinque villaggi in condizioni disperate, con un solo clistere, nemmeno un termometro e una mezza bottiglia di acido fenico; aveva fondato tre scuole e un ospedale; sulla soglia dei trent'anni, già  malato di tisi, si era recato a Sachalìn, «il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l'uomo, libero o prigioniero che sia», un luogo, scriveva a Suvòrin che cercava di dissuaderlo, dove «noi dovremmo andare in pellegrinaggio come i turchi vanno alla Mecca», perchè «la colpa non è dei carcerieri ma di ognuno di noi»; aveva viaggiato in Europa e in Asia; aveva scritto pezzi umoristici per i giornali, diversi vaudevilles e drammi alcuni dei quali, messi magistralmente in scena da Stanislà vskij, avevano ottenuto un grande successo; soprattutto aveva composto duecentotrentanove racconti che nel loro insieme, come ha detto qualcuno, costituiscono una sorta di grande e singolare enciclopedia della vita russa nella seconda metà  dell'Ottocento.

Costituiscono soprattutto quelle novelle una radicale innovazione sul piano della forma, come riconosceva lo stesso Tolstòj che, pure, nei contenuti sentiva talvolta un'eco - per lui altamente pericolosa - di Nietzsche. In realtà  Cechov sembra avere preliminarmente svuotato i suoi racconti dalle tradizionali scadenze drammatiche; gli eventi sono assottigliati; i suoi protagonisti appartengono quasi tutti alla sfera del grande anonimato e attorno a loro si intreccia una serie di episodi quotidiani, piccoli, spesso insignificanti, ma raccolti, rappresentati e interrogati da una suprema arte delle sfumature.

«Sono fatti casuali - scrive in uno dei suoi racconti più belli, Per affari di servizio - parti di un grande organismo»: lo scrittore li seleziona, li isola e li esplora con pazienza, con un perfetto senso dei tempi, delle scansioni, della pause, dei punti opachi gravanti su una realtà  insieme tragica e insonne, ma che trova nell'insonnia «qualcosa di rispettabile, un buon segno», il pronostico di un avvenire intravvisto a volte oltre la linea grigia e opprimente dell'orizzonte. Quando, osservava Virginia Woolf, leggiamo questi racconti costruiti apparentemente «sul nulla, il nostro orizzonte si allarga». Sul nulla; su un mondo che Cechov ha fatto affiorare, a cui ha dato voce e che ha rappresentato con fermezza, disincanto, suprema comprensione, pronto - per tutto il tempo in cui scrive - a «parlare, pensare e sentire» come un ladro di cavalli, perchè quello gli sembra l'unico mezzo, la sola tecnica per mettere in scena un simile personaggio e farlo esistere in piena autonomia. Così il suo universo continua a vivere e vivrà , secondo la predizione di Nabokov, fino a «quando ci saranno le betulle e i tramonti e la voglia di scrivere.»

da "il manifesto" (21 febbraio 2005)
 




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(Giorgio Gaber)

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